Una pedana mobile è posta al centro del palcoscenico ed una serie di elementi scenici formano ambienti ed epoche di una Russia al confine della sua storia zarista. Una scelta visiva in grado di evocare un’appendice dello stesso palcoscenico, come a sottolineare la natura teatrale della messinscena curata dal regista e scenografo Andrei Konchalovsky per il suo riallestimento dello ‘Zio Vanja’ (2010) e per il debutto in prima nazionale con l’altro testo cechoviano ‘Le tre sorelle’, entrambi prodotti dal Teatro Accademico Statale Mossovet (Mosca) e presentati all’interno del Napoli Teatro Festival Italia 2014.
Yulia Vysotskaya, Laria Kuznetsova, Natalia Vdovina e Galina Bob sono le attrici protagoniste di questi due spettacoli. Sono loro, grazie al lavoro di Konchalovsky e alle parole Cechov, a portare l’interno del salotto borghese in un “esterno mentale” dove i loro sentimenti trovano forme e dimensioni concrete. Sognanti e per questo vive, proiettate al futuro inconsapevolemte tragico. Ovviamente, non sono da meno Pavel Derevyanko, Alexander Bobrovsky e Vladas Bagdonas, solo per citare alcuni dei protagonisti maschili, ma è il carattere femminile a prevalere e a convincere. Emblematica è l’inaspettata Sonja, in grado di tener testa ad un Vanja in versione quasi trickster. Paradossalmente, in entrambi gli spettacoli, il positivo e il negativo, la risata e l’angoscia convivono senza mai scontrasi, almeno apparentemente. In ‘Tre sorelle’ la scelta dei contrasti è resa ancora più evidente dalla felicità espressa dal gioco sull’altalena in apertura di spettacolo che ricade lungo lo spettacolo fino a concludersi con le immagini di un esercito pronto a combatte.
«Cechov – afferma Konchalovsky – fu in grado di vedere la vita come nessun altro nella storia dell’arte. Fu il fondatore del dramma moderno che subentrò alla tragedia romantica del XIX secolo. Cechov espresse molto precisamente la sua concezione dell’arte: “In scena la gente pranza, prende il tè, mentre la propria sorte li conduce alla rovina”». Anche Stanislavskij racconta negli appunti alle sue regie che all’inizio fu difficile dissentire dai luoghi comuni che circolavano sui drammi di Cechov: personaggi che parlano con frasi che non finiscono, che non succede niente, che le scene sono inerti. Furono i simbolisti delle avanguardie del periodo ad esaltare proprio questa assenza di azione, di avvenimenti e movimenti che costituisce l’originalità e la contemporaneità di tale drammaturgia. Cechov è in grado in disegnare un quadro sociale di terrificante inefficienza, di presunzione e di spocchia, meste a facili dichiarazioni di buoni propositi, di una classe dirigente – quella borghese – che danza sull’orlo della fine, a pochi anni dalla Rivoluzione del 1917. «Il mio interesse per Cechov – continua il regista – è nato ai tempi dell’Università quando, ancora studente, ero molto appassionato a Bergman: in uno dei suoi libri, aveva scritto che prima di iniziare a girare un film leggeva sempre Cechov per sentirsi dell’umore giusto. Questo mi ha stupito. Quando mi appresto a mettere in scena uno spettacolo non penso alle analogie o alle allusioni contemporanee che può avere, non mi interessa assolutamente quanto può essere attuale il dramma teatrale. Sono pronto a mettere in scena qualsiasi opera di Cechov. La sua profondità si evince dal fatto che lui voleva bene alla gente così com’era e non come avrebbe dovuto essere». Infatti, entrambe le regie partono dal punto di forza evidente: quello di mettere il testo al centro dell’opera e su di essa far muovere uno sciame di attori talentuosi e ben orchestrati.