Il termine “femminicidio” ha avuto eco mondiale dopo i vari studi di diritto, sociologia, antropologia, criminologia e l’utilizzo della parola negli appelli internazionali lanciati dalle madri delle ragazze uccise a Ciudad Juárez, nello stato di Chihuahua in Messico, dove dal 1993 al 2012 sono morte più di 700 giovani donne e adolescenti dai 15 ai 25 anni, di modestissime condizioni sociali che hanno dovuto abbandonare gli studi e cercarsi lavoro per impellenti necessità familiari. Prima di essere assassinate, la maggior parte di loro ha subito violenza sessuale ed è stata torurata. La popolazione ha accusato le autorità locali e nazionali di aver coperto gli assassini. La Corte LatinoAmericana dei Diritti Umaniconsidera lo Stato Messicano come il principale respondabile di questi fatti.
A partire dagli anni 2010, si è accesa l’attenzione mediatica sul tema della violenza di genere, con trasmissioni televisive, seminari e spettacoli teatrali. Specie in occasione della giornata mondiale contro la violenza di genere e la giornata internazionale della donna.
L’11 maggio 2011 è stata sottoscritta a Istanbul dai membri del Consiglio d’Europa la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. La convenzione prevede che divenga vincolante per gli stati membri del Consiglio d’Europa quando almeno 10 stati membri l’abbiano ratificata. È stata firmata da 32 paesi e il 12 marzo 2012 la Turchia è diventata il primo paese a ratificare la Convenzione. Nel 2015 hanno aderito Albania, Portogallo, Montenegro, Moldavia, Italia, Boznia-Erzegovina, Austria, Serbia, Andorra, Danimarca, Francia, Finlandia, Spagna, Svezia, Bulgaria, Irlanda.
Nel giugno 2013, il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e nell’agosto 2013 il governo ha emanato il decreto legge 93/2013, poi convertito nella legge 15 ottobre 2013 n. 119, con nuove norme penali che aggravano le ipotesi di atti persecutori od omicidio contro il coniuge o il convivente, sia quando l’omicida è donna sia quando è uomo, tramite specifiche aggravanti dei reati.
Negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1740, di cui 1251 (il 71,9%) in famiglia. Qualcuno sembra rallegrarsi della leggera flessione dei femminicidi negli ultimi tempi, passati dai 124 del 2011 ai 111 del 2016, ma, come ci dice lo stesso Capo della Polizia Franco Gabrielli, è vietato indulgere all’ottimismo e abbassare la guardia e occorre contrastare il fenomeno non solo con strumenti di polizia ma anche con una “rete tra mondo della prevenzione, della repressione e le istituzioni che operano nel sociale” perché c’ è ancora “un’area oscura di abusi e maltrattamenti”, frutto di “una subcultura che reifica la donna disconoscendole il diritto alla libertà e all’autonomia”.
I dati dell’Istat ricordano come la violenza sulle donne sia “un fenomeno ampio, diffuso e polimorfo”, accompagnato e spesso anticipato da vessazioni psicologiche, da uno stato di soggezione, che riguarda 4 donne su 10.
Le donne si trovano a dover subire non solo l’affermazione della forza fisica maschile, ma anche a vari livelli, forme di svalutazione e sottomissione che le segnano irrimediabilmente anche a livello psichico: una su 4 ha difficolta’ a concentrarsi e soffre di perdita di memoria. Il 31,5% delle donne, quasi una donna su tre, ha subito nella propria vita una forma di violenza fisica o sessuale, dove l’ “asimmetria di potere” puo’ sfociare anche in gravi forme di svalorizzazione, limitazione, controllo fisico, psicologico ed economico che rendono la donna totalmente succube e spesso incapace di denunciare il proprio carnefice. Nei dati rilevati dalle istituzioni che si occupano del recupero psicologico delle donne vittime di violenza, risulta che il 40,4% delle donne, oltre 8,3 milioni di donne, e’ stata vittima di violenza psicologica da parte del partner o dell’ex. Dalle violenze domestiche allo stalking, dallo stupro all’insulto verbale, la vita delle donne è fatta di violazioni della propria sfera intima e personale, di tentativi di cancellarne l’identità, di limitarne l’indipendenza e la libertà di scelta.
Il tragico estremo di tutto questo è rappresentato dal femminicidio, che anche se in leggero calo rispetto agli anni precedenti, dimostra di essere ancora un reato diffuso ed un problema che ha bisogno di una risposta non solo giudiziaria, ma culturale e educativa.
Tra le violenze subite, quelle sessuali, di solito iniziate in giovanissima età in seno alla famiglia, sono le più difficili da denunciare per paura o per vergogna. Le ragazze non trovano un confidente cui rivolgersi e gli abusi non vendono quasi mai confessati. Ogni violenza subita e non denunciata, di qualsiasi tipo sia, ottiene il risultato di minare in profondo la stima delle donne in se stesse rendendole passive e innocenti complici dei loro carnefici. Pochissime riescono a rivolgersi per aiuto alle istituzioni o ai servizi specializzati che potrebbero proteggerle. Pochissime hanno la lucidità di percepire il crescendo di violenza fisica e psicologica che spesso sfocia in “femminicidio”, perché private, nelle continue vessazioni e nella mancanza di esercizio della propria libertà personale, di quella lucidità che farebbe intravedere a tempo il pericolo. Una “mattanza da fermare” ad ogni costo, come chiedono le tante associazioni attive nell’assistenza alle donne che si battono perché questi episodi non accadano più, da Telefono Rosa ad ActionAid.
Questa mattanza è ampiamente testimoniata dai dati ISTAT e del Ministero della Giustizia, facilmente consultabili negli appositi siti.
Ma nonostante dal punto di vista normativo siano stati fatti molti passi avanti, dall’altro lato non si capisce come i centri antiviolenza stiano piano piano chiudendo per mancanza di fondi. Sono decine le associazioni in difficoltà dopo il taglio sociale voluto dal governo Gentiloni. Eppure la legge del 2013 sul femminicidio aveva previsto l’erogazione di 10 milioni all’anno per i centri antiviolenza. Ma quel denaro, arrivato già in ritardo di mesi, una volta nelle casse delle Regioni è sparito, usato ovviamente per ben altre cose, vorremmo sapere quali, che non il supporto dei centri antiviolenza a cui in realtà era destinato.
Altro gravissimo problema legato al femminicidio e che pesa sulla società riguarda gli orfani del femminicidio che vengono privati di entrambi i genitori. Nel 2017 Anna Costanza Baldry ha pubblicato uno studio a proposito che stima che in Italia in 15 anni, dal 2000 al 2014 abbiamo avuto 1600 orfani che hanno perso madre (uccisa) e padre (in carcere). Sono bambini problematici, feriti, che hanno assistito a incredibili violenze prima dell’ultimo delitto e si trovano privi di figure genitoriali di riferimento. La ricerca nasce dal progetto europeo Switch-off , svolto in cooperazione con la rete DiRe. Donne in Rete contro la violenza. Davanti a questi dati mai prima rilevati in Italia è in fase di approvazione una legge che stabilisca i termini di protezione e tutela degli orfani di vittime di femminicidio.
Vogliamo che resti chiaro che quanto detto non alimenta in alcun modo nessuna guerra dei sessi in cui non crediamo, ma convoca tutti quelli che vogliono una società giusta e libera a farsi carico del problema e a lottare per assicurare a tutti una vita degna.
E per farlo abbiamo bisogno non solo della coscienza e della lotta delle donne ma di avere accanto a noi anche la parte maschile “sana” della nostra società, senza mezzi termini né distinguo perniciosi, senza dichiarazioni ovvie, come quelle sugli omicidi perpetrati da parte delle donne sugli uomini che chiaramente non approviamo ma che riguardano dati ben più limitati rispetto al femminicidio e non hanno come origine la “cosificazione” dell’uomo da parte della donna, quindi non riguardano un fenomeno socialmente accettato come quello della “donna oggetto”.