“Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?”
“Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo” – Gianni Rodari.
La parabola umana e intellettuale di Gianni Rodari, nato a Omega (VB) il 23 ottobre del 1920 e morto a Roma il 14 aprile del 1980, potrebbe essere iscritta tra queste due citazioni. In esse si esprimono le due volontà più forti che hanno mosso il suo pensiero: quella di un’educazione che si legasse nei bambini a una dimensione di piacere, di gioia e di gioco e nello stesso tempo stimolasse in loro l’acquisizione di una libertà che li riscattasse da qualsiasi tipo di oppressione e contribuisse alla loro completa realizzazione personale, in quanto uomini e soggetti sociali.
Con Rodari proseguiamo il nostro discorso sui grandi Maestri che nel Novecento hanno cambiato la nostra visione del bambino, della scuola, dei modelli educativi.
Come tutti gli altri di cui abbiamo parlato, comincia la sua carriera da maestro elementare e da subito la sua attenta osservazione senza pregiudizi lo porta a cogliere i meccanismi dell’apprendimento legati nell’infanzia essenzialmente alla dimensione ludica. I suoi ricordi d’infanzia fanno il resto, riportandolo all’ambiente del lago d’Orta e dei monti circostanti, agli insegnamenti di suo padre antifascista, alla religiosità materna, elementi che si fusero in lui, da adulto, in una mentalità laica accompagnata da una profonda spiritualità. Sin dalla prima adolescenza Rodari legge romanzieri come Verne, Salgari, Dostoevskij, Tolstoj, poeti come Montale e Gatto oltre che vari testi filosofici e politici, (fu un attento lettore di Gramsci), che cominciano a indirizzare la sua ideologia a sinistra. Il Surrealismo d’Oltralpe cui si avvicina con entusiasmo gli darà la libertà di sperimentazione che lo porterà a emanciparsi dalla cultura tradizionale, tentando nuove strade, proprio nel campo dell’educazione e della scrittura per ragazzi.