Di colpo, quel due di ottobre, Camilla smise di parlare. Non era malata, non era triste. Camilla aveva quindici anni, i capelli rossi di sua nonna e una passione da sempre per gli uccelli. Non era una che li tenesse in gabbia, a scuola non le piacevano le scienze ma gli uccelli erano un’altra cosa. Di colpo quel due di ottobre Camilla perse tutte le parole. Nessuno in quel primo giorno si preoccupò più di tanto. Una quindicenne che tace, in una casa grande piena di genitori indaffarati, di fratelli chiassosi, di una zia che suona il tamburo, è un evento che può per qualche ora passare inavvertito.
La zia Elvira aveva quarant’ anni, di cui tredici vissuti in Africa, suonare il tamburo per lei era come respirare sicché il ritmo delle sue mani era lo stesso della casa. Camilla aveva imparato da lei antichi canti rituali e danze e insieme l’abilità di sottrarsi agli altri senza che se ne avvedessero. Sua zia aveva portato dall’Africa una statua di legno metà donna e metà uccello, la teneva sul cassettone nella sua camera. Camilla da bambina l’aveva guardata per ore affascinata, tentando invano di fermare il punto dove le due figure si fondevano o si dividevano per essere qualcos’altro dall’ibrido apparente
Gli uccelli di Camilla erano creature straordinarie, niente a che vedere con i passeri sul davanzale o i colombi nelle piazze. Erano forme alate, un misto di angeli, chimere, pegasi, aquile reali, grifoni rampanti, tutto quello che da ogni storia si alzasse nell’aria, provocasse domande nel vuoto. Camilla tentava da sempre di disegnare il volo, non uccelli volando ma il volo in sé, senza ali né piume né corpi. Camilla trovava naturale giocare con l’impossibile. Per questo le piaceva tanto la zia Elvira. Eppure quel due di ottobre Camilla non scambiò neppure con Elvira quello sguardo che avrebbe rivelato il perché del suo silenzio. Semplicemente aveva cominciato a tacere. Non ricordava di aver preso alcuna decisione, non ricordava di essersi proposta il silenzio, pure le parole, tutte le parole, di colpo erano andate via. Camilla non si sentiva diversa dagli altri giorni. E neppure gli altri le sembravano diversi.
Cominciò ad ascoltare la casa, prima che gli altri percepissero il suo silenzio, Camilla si regalò quell’ascolto assoluto che le faceva sentire i piccoli sussulti del legno, la polvere che entrava dalle finestre e si posava sottile sulle superfici cambiando di suono con tocchi impercettibili, la tensione della pelle africana sul tamburo di zia Elvira e il fibrillante volo degli uccelli tra i platani della piazza. Dentro quell’ascolto c’era la sua casa: il vecchio palazzo umbertino la nascondeva nella sua parte più interna sicché il traffico della piazza giungeva ovattato, cerchi che si allargavano piano nell’aria delle stanze grandi, dei soffitti con le travi di legno, delle tante memorie che la sua famiglia vi aveva accumulato dentro.
E dentro la casa c’era lei, Camilla, arrivata al silenzio senza neppure sapere come. Sapeva di avere poco tempo prima che gli altri si fermassero a guardarla, prima delle loro domande per cui non esistevano risposte.
Suo padre le avrebbe fatto un lungo discorso che avrebbe compreso tutte le ipotesi senza mai avvicinarsi alla verità. A Camilla aveva sempre fatto un certo effetto ascoltare suo padre. Suo padre insegnava diritto, era la persona più logica che avesse mai conosciuto ma quella logica lasciava Camilla attonita e confusa. Non ci trovava nulla che le servisse, che sciogliesse gli incubi o esaltasse la gioia.
La zia Elvira era la sorella di suo padre, Camilla li guardava a volte mentre parlavano insieme quasi appartati sul davanzale, avvolti dal fumo delle loro sigarette, immobili, un poco complici eppure assolutamente dissimili, niente in comune se non l’affetto che li legava, nessuna aria di famiglia, neppure vaga. Ogni volta si sorprendeva di quei loro contatti quasi furtivi, non capiva cosa si potesse dire a suo padre senza correre il rischio di sentirsi rinchiusi nei suoi giudizi sfibranti, in certe sue parole taglienti e nervose che lasciavano senza possibili risposte. Eppure zia Elvira usciva sempre indenne da quei contatti, Camilla ne aveva spiato il gesto con cui scostava dal viso i suoi capelli neri, la profondità dello sguardo che conservava intatto il suo calore, il passo indolente e agile con cui si allontanava.
Camilla avrebbe voluto somigliarle, portarsi a spasso come lei quella femminilità che suggeriva, che pareva non conservare traccia di asprezze o di ossessioni. Camilla guardava il suo corpo magro, le pareva estraneo a volte, lontano dalla percezione che aveva di se stessa, lontano dai suoi sogni, magro e insieme pesante. Di sé le piacevano solo gli occhi e i capelli rossi che aveva preso da sua nonna, erano qualcosa di eccessivo che attirava l’attenzione su di lei ma non era per questo che le piacevano. Era l’unica della famiglia ad averli ereditati da quella nonna irlandese capitata chissà come negli anni cinquanta in una Roma un po’ capitale e un po’ strapaese. Le piaceva questo dei suoi capelli, quell’evento lontano, vago nella memoria, quell’imprevisto che aveva regalato alla sua infanzia le sue storie più belle.
Da sempre le piacevano le storie, non aveva importanza chi le raccontasse, non aveva importanza che fossero perfette. Quelle storie erano per lei solo frammenti per costruirne altre, tutte sue, sorprendentemente luminose e trasparenti come cristalli e in tutte, assolutamente in tutte c’era il volo, creature immaginarie metà uomini e metà uccelli, ali dalle piume variopinte e teste di donna con lunghi capelli intrecciati a fiori piccoli, a volte un po’ appassiti e occhi spalancati e terribili che trasmettevano enigmi. Camilla non ricordava quando certe figure avessero cominciato ad accompagnarla e quando il volo degli uccelli, il loro cinguettìo, il frullare d’ali sulla piazza all’imbrunire le avesse aperto quel buco nell’anima che niente riusciva a chiudere.
Un indicibile struggimento, una malinconia misteriosa le era entrata nello sguardo, nel fondo della gola e l’accompagnava in quella sua crescita incerta, nella sua stanza dove coesistevano i giochi dell’infanzia, i suoi amati libri di mitologia, i manifesti sui muri: una visione di Venezia traforata tra nebbie e acque, una riproduzione di Chagall, il suo complesso musicale preferito, una tavola di farfalle multicolori dipinta in un giorno di pioggia con tocchi densi e infantili, le sue foto al campeggio con i suoi fratelli maggiori e poi lei sola sulla spiaggia, quasi rapita e i gabbiani grandi, bianchi sulla scogliera e altri in volo come virgole contro l’azzurro estivo del cielo.
Quella mattina avevano fatto colazione tutti insieme nel solito confuso parlottare, nella solita fretta, un po’ di gioco, un po’ di raccomandazioni, le quotidianità abituali e poi tutti fuori, sua madre l’aveva baciata mentre si infilava una delle sue inappuntabili giacche:” Torno prima oggi, non dimenticarti che abbiamo appuntamento dal dentista”. Camilla passò la lingua sul suo apparechio dentale.
Come avrebbe potuto dimenticarlo, il torturatore dei suoi ultimi due anni? Camilla restò per ultima e sola nella casa, la sua scuola era a duecento metri, sempre le restavano dieci minuti per lei, nel disordine della cucina e delle camere, un tempo quasi rubato. Entrò nella sua stanza per prendere lo zainetto di tela carico di libri e lì nello specchio si vide. Non aveva detto una sola parola da quando si era alzata, nessuno sembrava essersene accorto, neppure lei. E ora di fronte a quello specchio che possedeva ribaltato il segreto della sua immagine seppe che il silenzio l’aveva raggiunta, inaspettato e misterioso. Pensò di non andare a scuola, di starsene nascosta accucciata in un angolo protetto della sua casa, provò a parlare ma nessun suono uscì da lei.
Rimandare non sarebbe servito a niente. Sapeva di non essere malata, che le sue corde vocali erano perfettamente sane, i centri del linguaggio nel suo cervello intatti. Erano solo le parole, tutte le parole che conosceva ad essere andate via. Un brivido le attraversò il corpo. Era anche lei una di quelle creature a cui accadono fatti senza ragione. Sorrise stranamente confortata. Questo avrebbe fatto, ad ogni parola d’altri, ad ogni domanda d’altri, avrebbe sorriso per mostrare che ascoltava, che non era arrabbiata, che il mondo continuava a girare allo stesso modo.
“Mi stai prendendo in giro?” le sussurrò Natalia, la sua amica del cuore e compagna di banco, quando Camilla le aprì davanti la pagina del suo diario con su scritto “Non posso parlare”. Camilla rispose “No” con un cenno del capo.
“Ti senti male ,allora? I tuoi che dicono?” chiese Natalia.
“Non se ne sono accorti ancora. -scrisse Camilla- Io mi sento benissimo, Non so come né perché; non parlo, è successo e basta.”
Natalia la guardò per tutta la mattina tra l’incredulo e il preoccupato.
Nessun professore interpellò Camilla, nessun compagno si accorse del suo silenzio.
“Oddio! –quasi gridò Natalia prima che si lasciassero- Non possiamo sentirci per telefono!”. Camilla sorrise, le volse le spalle e si incamminò lenta per il viale che dava alla sua piazza e alla sua casa. Non avrebbe superato con tanta facilità altri giorni come quello. C’erano domande più difficili, pressioni più forti di quelle di Natalia. Camilla sentiva che il suo silenzio sarebbe apparso minaccioso, un assurdo lanciato contro la vita programmata degli altri.
Camilla entrò nella piazza, il cinguettìo degli uccelli era assordante. Nella piazza c’erano solo gli alberi, le panchine di pietra, al centro la fontana e da un lato la facciata austera del suo palazzo.
Camilla si sentiva forte per la prima volta e leggera. Sarebbe salita a casa e prima che arrivassero tutti, avrebbe suonato il tamburo di zia Elvira, avrebbe costruito la sua attesa.
Dopo un’eternità possibile di silenzio, era certa, sdraiata sul pavimento della sua stanza, su un grande foglio bianco, avrebbe posseduto con pochi tratti magici, inquietante e bellissimo….il volo.
Per l’immagine ringraziamo il fotografo, Marco Mora, che ha gentilmente concesso l’uso della sua fotografia