«L’anno prossimo niente giornata sospesa, mamma.» Fu l’unica cosa che riuscii a dire al tuo funerale. E pensare che avevo così tante cose da raccontare su di te.
«Bambini, oggi niente scuola! Forza, vestitevi, ho una sorpresa per voi.»
Era iniziata così la prima giornata sospesa, l’inizio di una lunga serie, un appuntamento solo nostro, al quale non abbiamo rinunciato mai, anno dopo anno.
Papà se n’era andato, senza voltarsi indietro, da 27 giorni. Lo so per certo perché segnavi i giorni sul calendario di Frate Indovino che stava appeso dietro la porta, in cucina. Ventisette croci rabbiose, per sottolineare come, anche senza di lui, noi restavamo in piedi.
Forse quella giornata sospesa era stato l’innesco della nostra rinascita, la prima volta che ci eravamo sentiti di nuovo una famiglia e non tre persone a cui mancava la quarta per esserlo.
C’era un bel sole tiepido, quel giorno, un piccolo assaggio di una primavera che tardava ad arrivare. L’aria uggiosa delle ultime settimane aveva amplificato la nostra amarezza. Non una visita, non una chiamata. Ogni pomeriggio, io e Pietro l’avevamo aspettato appiccicati ai vetri appannati dalla pioggia. Mio fratello diceva che papà ci aveva buttati nella scatola delle cose inutili, come quella che stava in cantina. Tu gli telefonavi ogni sera, quando credevi che dormissimo, per implorarlo di farsi vivo almeno con noi, che non avevamo nessuna colpa. Ma nemmeno tu avevi colpe, mamma.
«Dove andiamo?» avevo chiesto, divorato dalla curiosità.
«Se te lo dico, che segreto è?» Avevi riso, buttando indietro la testa, come facevi prima, quando avevi ancora i tuoi capelli lunghi che mi facevano il solletico quando ti abbracciavo. Anche noi due avevamo riso, ma un po’ incerti, perché non lo facevamo da ventisette giorni e avevamo paura di sbagliare.
Ti eri messa sulle spalle lo zaino da trekking, sembrava pienissimo, chissà cosa ci avevi nascosto dentro.
Avevamo girovagato per le viuzze della città vecchia, comprando gelati e fesserie di cui non avevamo bisogno, ma stringevamo in mano come tesori.
Poi eravamo scesi al porto. Avevi appoggiato lo zaino a una bitta e tirato fuori tre pezzi di sughero con del filo di nylon avvolto attorno, un secchiello con i personaggi di Toy Story e un sacchetto pieno di mollica di pane.
«Questi sono i bollentini, servono per pescare.»
«Pescare pesci?» aveva chiesto Pietro.
«Solo se sei fortunato, altrimenti peschi stivali, gomme di bicicletta, bottiglie…» Gli avevi scompigliato la zazzera pel di carota e avevi riso di nuovo.
«E stasera li facciamo alla griglia nella terrazza sul tetto?» Già mi figuravo il profumino di pesce arrosto.
«Stivali grigliati per tutti!» aveva concluso Pietro, sbellicandosi.
Poi eravamo tornati seri, perché «Pescare è un’attività che richiede concentrazione e tecnica,» mi sembra ancora di sentire la tua voce, mamma.
Avevi gettato un po’ di pane per pasturare i pesci e ci avevi insegnato ad avvolgere la pallina di mollica sull’amo senza pungerci, a tenere il galleggiante tra due dita per lanciarlo, a richiamare la lenza pian piano, per far vedere il bocconcino ai pesci. Ci avevi spiegato che si deve tendere il filo sul dito indice, per sentire il tocco e che bisogna dare un piccolo strappo, per acchiappare il pesce quando ha abboccato.
«Mamma, l’ho catturato!» Il cuore mi era balzato nel petto quando avevo sentito strattonare la lenza per la prima volta.
Lo avevi staccato con delicatezza dall’amo e poi messo nel secchiello riempito d’acqua di mare. Il pesce girava in tondo, forse gli sembrava strano quel mondo ristretto e tutto colorato.
«Poverino, però.» Pietro aveva gli occhi lucidi e la bocca imbronciata.
«Vuoi liberarlo?»
«Si, mammina. Possiamo?» Anche a me dispiaceva per il pesce.
«Certo che possiamo! Oggi è la giornata sospesa, possiamo fare tutto quello che ci pare!»
E così il pesciolino era tornato nel mare e noi eravamo rimasti con le gambe penzoloni giù dal molo a mangiare panini con il salame, che avevi tirato fuori dallo zaino delle meraviglie.
«Non-pescare fa venire fame!» aveva detto Pietro con la bocca piena.
Dopo pranzo eravamo rimasti a guardare le navi partire, gridando «Salutami l’America!» Chissà poi perché. E anche quando in America ci ero andato davvero, ero tornato anno dopo anno per la nostra giornata sospesa, noi tre soli.
L’ultima volta che siamo venuti al molo eri già malata. Mi hai chiesto di agganciare lo zaino alla carrozzina
«Lo zaino lo porta la mamma, come sempre.»
«Non dovete essere tristi per me, ormai siete adulti, avete le vostre famiglie, le vostre vite. Voglio che sappiate che siete stati la mia gioia. Non ho nessun rimpianto, davvero.»
Mi rigiro tra le mani la fotografia che aveva scattato Pietro il pomeriggio della prima giornata sospesa. Era corso avanti, impaziente come suo solito, e ci aveva colti attraverso il varco che conduceva al molo: un bambino felice con una maglietta rossa e una donna con i capelli corti, una gonna di jeans e un incongruo zaino da trekking sulle spalle.
Il pesciolino non si vede, era già lontano nel mare infinito.
Per l’immagine ringraziamo Ancos che ha gentilmente concesso l’uso della sua fotografia