“Domani mi mandano via sai?”, disse l’uomo a Davide. Dove sarebbe andato era la domanda che si faceva Davide, ma non osava farla a lui.
Era arrivato dai campi come tutte le altre volte che era uscito senza permesso e i vigilanti e gli infermieri lo avevano lasciato uscire facendo finta di niente. Si chiamava Giacomo.
“Non sono uno di quelli pericolosi, lo sanno tutti”, diceva sempre, come aveva detto la prima volta che era arrivato trent’anni prima costeggiando la strada principale che attraversava la pianura.
Era una strada alberata da entrambe i lati. Una strada sulla quale a quel tempo passeggiavano ancora i Re in villeggiatura quando venivano a visitare la tenuta, si facevano offrire l’acqua dai mugnai e il latte appena munto e si sedevano un poco nell’aia.
I Re in casa non entravano mai, Giacomo sì.
La madre di Davide e le sue sorelle grandi lo facevano accomodare in cucina, non era pericoloso per davvero.
In quella casa avevano imparato a distinguere quelli pericolosi da quelli come Giacomo. Arrivavano tutti dalla stessa parte, dagli stessi campi e dallo stesso manicomio.
“Viene dal Chiarugi” dicevano in paese.
Lo dicevano di chi era ricoverato come di chi ci lavorava e di tutti quelli fuori di lì che non erano “normali” secondo il pensiero comune.
La cosa si estendeva oltre i confini del paese. “Viene da Racconigi” era quello che nei paesi attorno dicevano con un certo tono di chiunque era considerato strano, che da Racconigi arrivasse o meno. Quello era il solo ospedale psichiatrico dell’intera provincia, era attivo da poco più di cento anni. Una superficie coperta di trenta tremila metri quadrati su un’area recintata di centosettanta mila.
Fino a otto anni prima vi erano ricoverati millecinquecento pazienti e vi lavoravano più di quattrocento persone, contro una popolazione residente nel comune di Racconigi di ottomila abitanti. Un paese nella città.
Ma non per tutti si chiudeva un occhio ai cancelli. La fuga di molti veniva seguita dai furgoncini ambulanza, dagli infermieri che correvano all’inseguimento nei prati e dalle camicie di forza.
Davide ne aveva viste tante di scene così, ma quell’uomo era diverso. Giacomo aveva fatto la Grande Guerra. Quella che aveva fatto anche il padre di Davide prima di tornare sano e salvo e morire sull’aia del mulino per uno schianto al cuore, mentre diceva ai mugnai quanti sacchi di farina caricare sui carri in cambio del grano.
La faccia di suo padre Davide non se la ricordava, era solo una fotografia di un uomo giovane che avevano messo sulla credenza quando lui aveva cinque anni.
Quando Giacomo era arrivato anni dopo, la sua faccia si era sovrapposta a quella della fotografia di suo padre e i due erano diventati per Davide la stessa persona.
Quando Giacomo gli raccontava della trincea, diventava suo padre nelle Ardenne. Quando Giacomo era arrabbiato con un inserviente dell’ospedale che gli dava il cibo cattivo, era suo padre che veniva maltrattato e a Davide sembrava di offrire un piatto di minestra di consolazione a suo padre.
Adesso, a distanza di più di trent’anni da quella prima volta, quell’uomo, che in realtà conteneva per Davide due uomini, gli stava dicendo che doveva andarsene. Che gli toglievano una cosa che per lui era diventata una casa, la sua casa.
Davide capiva benissimo cosa questo significasse. Infatti erano almeno vent’anni che non abitava più nella tenuta con il mulino in cui era nato e che la sua famiglia un tempo amministrava. Ora viveva in una piccola casetta con annessa officina in cui riparava orologi di tutti i tipi.
Sapeva che anche Giacomo lo sapeva, aveva aiutato lui la madre Davide e le sue sorelle quando Davide era ancora un bambino, a tirarsi dietro l’uscio di casa per l’ultima volta quando li avevano cacciati dal mulino del Re. Era successo quando il Re aveva perso la guerra perché aveva dato retta ai fascisti. I fascisti che avevano ucciso tanta gente e rinchiuso in manicomio uomini che come Giacomo non amavano le donne nella maniera degli altri uomini.
Giacomo parlava con tutte le donne come gli altri uomini facevano solo tra di loro e a quelle che gli piacevano scriveva poesie.
Si lavava e stirava i vestiti. Faceva la spesa e cucinava. Lo aveva fatto fino a che una donna, moglie di un gerarca fascista di Rieti, si era innamorata di lui e lui l’aveva respinta come sarebbe stato invece meglio non fare.
Erano venuti a prenderlo di notte e dopo averlo picchiato e tenuto per ore nella cella del posto di polizia del suo paese, l’indomani lo avevano mandato lì, al manicomio. Lì dove parlavano un dialetto che non capiva, ma dove capiva comunque che quando lo chiamavano “Giacu fumna” non lo stavano chiamando per nome e basta.
Ora era uscito un provvedimento legislativo firmato Basaglia che gli diceva che dovevano andarsene tutti fuori di lì, in libertà. Quando se solo lui avesse voluto davvero la libertà se ne sarebbe potuto andare da anni.
Era rimasto lì perché dopo che ce lo avevano portato, in trent’anni, nessuno da casa era venuto a cercarlo. Come se chi lì ce lo aveva rinchiuso avesse solo fatto ciò che anche tutti gli altri volevano.
All’inizio, quando avevano cominciato a imporgli le medicine e l’elettroshock, aveva pensato di impazzire veramente, ma poi negli anni le cose erano cambiate.
Davide andava a trovarlo e lui andava a trovare Davide.
“Vieni qui!” gli disse Davide “Ti do da dormire e da lavorare”.
“Sono vecchio e non voglio lavorare. Non mi è mai piaciuto neanche quando lo facevo”. Ma non era vero, era solo che non se lo ricordava più.
“Sono venuto a salutarti, salutami anche tu. Lo sai anche tu cosa significhi passare da una casa con più di cento stanze ad una casetta di due più un garage. Non me lo chiedere”.
Davide lo salutò con una stretta di mano, senza un abbraccio. Giacomo non sopportava più gli abbracci da tanto tempo.
Davide ricevette da lui ancora due cartoline.
Una da Rieti e una da Casablanca. E poi più nulla.
Le mise entrambe di fianco alla foto di suo padre e quando i suoi figli gli chiedevano del nonno diceva: “Il nonno era uno che viaggiava tanto”.
Per l’immagine ringraziamo Beatrice Matzeu che ha gentilmente concesso l’uso della sua fotografia (“La metà libera”,1990)