Sono io lo sconosciuto che ha dato inizio al rito, è mio il cappotto lungo, nero, col bavero alzato che è stato intravisto solo quella prima volta, solo in quel primo gesto, è mio il viso quasi nascosto, la voce mai ascoltata.
Sono io quello che è entrato piano, tra i viali ordinati, io colui che ha cercato, tra lapidi di marmo, il nome, quel tardo pomeriggio di una stagione assorta senza sapere e senza perché. I passi che ho consumati fino a quel momento non avevano storia ma giunsi al cancello e entrai.
Di ciò che lasciai sulla tomba non vi spiegherò nulla, mi sono divertito a leggere sui giornali ogni possibile interpretazione, nessuno mai si è avvicinato al senso di ciò che lasciai. Eccesso di fantasia a volte o di semplificazione.
Stavano quasi per chiudere ma il guardiano mi lasciò passare, senza guardarmi mi lasciò passare e io seppi in quel momento che qualcosa stava per cominciare, il vecchio si scostò come se avesse paura o se gli piacessi fuori di ogni aspettativa. Io gli chiesi dove stava colui che cercavo e lui senza parlare, con un gesto vago mi indicò un punto imprecisato in fondo a un viale.
Quel giorno il cielo era stato falsamente azzurro e l’aria tiepida, poi di colpo un gennaio di un’oscurità inquieta, di un freddo invadente e io troppo magro dentro il mio cappotto nero che poteva nascondermi. Mi mossi inconsapevole come lo si è tutti del gesto estremo che taglia una vita. Avevo una bottiglia di cognac Martel che mi fuoriusciva dalla tasca del cappotto e le rose in una mano, comprate all’angolo della strada di fronte al mio albergo.
Perché non era questa Baltimora la città dove vivevo ma quelle erano le prime rose che compravo per un uomo e quella era la prima bottiglia che avrei condiviso e abbandonato. La bottiglia era fredda, a metà del suo liquido chiaro e le rose scarlatte, col gambo lungo, avvolte in carta da giornale.
Nella città dove vivo ho una casa a due piani, in stile vittoriano, in uno dei quartieri eleganti e un ufficio grande, con moquette azzurra e mobili di mogano. Però nell’intervallo del pranzo chiudo la porta a chiave e bevo da una bottiglia come questa il distillato delle anime perdute come la mia.
Ho cercato la risposta senza trovarla. Sono arrivato per caso in questa città, la prima volta, solo pochi giorni di un affare mediamente importante. Ma sono ritornato, dopo, ogni anno di quello stesso giorno, con le stesse rose rosse e la stessa bottiglia a metà e lo stesso cappotto nero, lungo e la stessa magrezza ostinata che il tempo non ha intaccato. Mi sono regalato una volta all’anno il segreto di una visita compromettente.
Seduto sulla sua tomba , il Corvo di nuovo rispondeva “never more”, “never more” col suo grido rauco ed eterno, a tutte le mie domande, a tutti i miei silenzi. E io gli ho parlato del cattivo Maestro che me lo ha fatto conoscere, dell’apparenza in cui ho camminato senza appartenermi e senza che nessuno mi appartenesse. Al conoscitore dell’abbandono ho parlato di abbandoni che non ho mai vissuto, di donne che non ho mai amato. Ho riso sulla sua tomba, ho cantato, ho lasciato le rose e la bottiglia a metà immerse nel terriccio intorno, sapendo ,da quella prima volta per tutte le volte a venire, che avevo incontrato il gesto, sapendo ciò che ero, l’immagine di un uomo alto, magro, con un lungo cappotto nero che stava riscattando la bellezza dal luogo inaccessibile in cui si era nascosta.
Scendevo sempre allo stesso albergo, compravo le rose sempre nello stesso negozio di fioraio ed erano sempre le stesse mani, le bianche fini mani di Mabel a sceglierle, rose sanguigne con il gambo lungo e le spine feroci che non le facevano alcun male.
-Sa, signore- mi aveva detto quel primo giorno –che qui, nel cimitero di Wesminster, abbiamo una celebrità?-
-Davvero?- le avevo risposto distrattamente, Cercavo dei fiori da mandare a casa del cliente che mi aveva invitato a cena.
-Sì, signore, abbiamo la tomba di Poe, quello del terrore, sa? Oggi è l’anniversario della sua nascita.-
L’avevo guardata disorientandola ,d’improvviso con occhi insistenti e abbagliati. -Voglio tre rose rosse, senza confezione, avvolte in un giornale- le avevo detto e inavvertitamente l’avevo toccata sul braccio. E` stato allora che ho visto davvero i suoi occhi, addolciti inutilmente da un evento che non capiva. Così il suo sguardo si è misurato con gli anni e con i nostri incontri brevi, addolcendosi ogni volta senza capire, cercando forse una strada possibile dentro la mia ossessione.
L’ho conosciuta nei suoi vent’anni troppo fragili, troppo struggenti, troppo inadeguati. Ora che non c’è più, ora che questo è il mio ultimo giorno, so che è stata amata al di là della mia cecità, della mia paura, della mia intollerabile presunzione. So che le parole che non ho mai detto non l’hanno ingannata, so che i gesti che non ho osato l’hanno lasciata nell’attesa imperturbata degli anni come un angelo di cera congelato e perfetto nel suo pallore. Il suo pallore ancora passa in luoghi come questo o in certe strade che abbiamo percorso, sulla panchina del parco dove ci siamo seduti l’ultima volta e lei, prendendomi una mano, mi ha detto “-Non ho tempo, nessuno ha abbastanza tempo- e io l’ho abbracciata senza intuire. Lei è qui con me ora, piú misericordiosa, piú presente di quanto io sia stato, lei è qui nel mio ultimo giorno.
Non c’è più il vecchio guardiano al cancello, mi ha aperto un uomo robusto, piùgiovane di me, piùindifferente e mi ha guardato con insistenza, ha guardato la mia bottiglia, le mie rose che questa volta le mani di Mabel non hanno avvolto nel giornale. Mi sembra che i viali si siano fatti più stretti, le arcate di verde più pesanti, mi sembra che la scritta sulla lapide sia come sbiadita. Sono venuto per l’addio, questo è l’ultimo gesto, le ultime rose, l’ultima bottiglia. Non ci sarà un altro giorno come questo, il vento che si insinua tra le siepi, le mie impronte sul terreno umido, un volo d’ali nere che plana tra le pietre.
Alla prossima data qualcun altro adempirà al rito, senza sapere, sostenendo quello che fu un gesto di vertigine e di sapienza, tentando altri significati, altre metafore del possibile. Io avrò raggiunto il pallore di Mabel, i versi di Poe, questa soglia prevista del passaggio dove si incontrano le memorie del passato e gli incanti che non ho saputo vivere. Diranno. -L’uomo col cappotto nero non viene più- e qualcuno lascerà la bottiglia e le rose e io dormirò nel gesto che ho inventato e altri si faranno domande e sogneranno il mio sogno.
Non voglio che si sappia il mio nome, né la città dove vivo, né che amai Mabel senza dirglielo, né che lei mi amò dentro i suoi occhi d’erba scura senza dirmelo, non voglio che si sappia che sarò morto, che non arriverò alla primavera, che la primavera passò con Mabel.
Di ciò che lascio sulla tomba, quella di Poe e la mia, di ciò che lasciai sulla tomba di Mabel non vi spiegherò nulla. Non so se ci siano vite che possano essere spiegate, dolori che si possano raccontare se non nelle visioni di un poeta, ma io non sono un poeta e non sono piú vivo. La vita non può essere questa pace, questo silenzio, questo pellegrinaggio dove chiudo tutte le porte.
Non sono più colpevole degli altri, ho fatto della mia vita quello che ho potuto, ignoro se ci fossero altre strade, ignoro se avrei potuto sopportare altri incubi da questi che mi sono regalati, ignoro perché questo luogo sia il luogo dove mi sono accettato, dove ho incontrato Mabel, dove la fine può essere raccontata, dove la mia cirrosi è solo il risvolto amaro, pagabile di un viaggio che ha avuto porti e tempeste. Qui la magia ha stabilito trame e il quotidiano patti con l’invisibile, qui sento il sorriso che si affaccia alle soglie della notte. Bevo l’ultimo sorso, lascio che la bottiglia trovi il suo posto di sempre accanto alle rose.
Ora mi tocca il simulacro di un addio. Guardo il nome, la data sul marmo bianco. Mi separo. Sono più vecchio dell’uomo che sta sepolto sotto questa lapide. E solo per poco, per poco ancora sarò terribilmente, profondamente vivo.
Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine























