Dopo il successo dello scorso anno, il ritorno di Servillo a Napoli è un evento atteso e ripagato in termini di presenza da parte del pubblico. Stiamo parlando di un attore famoso a livello mondiale, napoletano, che mette in scena un testo di Eduardo nel teatro-casa di Eduardo. Le premesse sono tanto ingombranti quanto la mole dell’eredità eduardiana ancora presente oggi e che nel trentennale della sua scomparsa fanno eco nella città partenopea. “Le voci di dentro” raccontano di un assassinio avvenuto tra il sonno e la veglia, tanto reale quanto sognato. Il seme dello spettacolo consiste nella dialettica fra un personaggio isolato – Alberto Saporito, interpretato da Toni Servillo – e un ambiente ben preciso – quell’umanità partorita dalle macerie del secondo conflitto mondiale – che reagisce alla presenza del protagonista e la contesta, fino al punto di sovvertire il sogno del singolo in realtà collettiva. In un lembo di vita di un uomo si scoprono la tragedia universale e il volto dell’omicida attraverso i nostri occhi, come davanti ad uno specchio. «In mezzo a voi, forse, ci sono anch’io. E non me ne rendo conto» dice umilmente Alberto Saporito, che Eduardo e l’interpretazione di Servillo non elevano a santo, a martire. Grazie a questa umile condizione, quella di non sapere se si è sognato oppure no, Alberto scopre i mostri e i fantasmi che abitano i nostri corpi, i nostri vestiti, i nostri famigliari, insomma il mondo che ci circonda.
Non a caso, sul finire dello spettacolo, il light designer Cesare Accetta nasconde lo spazio scenico nel buio e illumina il pubblico. La catarsi, quel morso allo stomaco, svanisce lentamente e la realtà concreta torna a vivere, lasciando il sogno della finzione al prossimo spettacolo. Dunque, i protagonisti siamo noi, gli uomini, il pubblico che accetta una convenzione sociale di relazione tra quello che crediamo vero e quello che sentiamo come finzione, come il sogno di Alberto Saporito e quello della cameriera Maria, intepretata da Chiara Baffi. In questa prospettiva il lavoro registico di Servillo è intelligente, non solo perché, svuotando il palcoscenico da quei prodotti della memoria eduardiana, libera il testo mostrandone la sua universalità di tempo e di luogo, ma egli riesce a fare prima di tutto uno spettacolo squisitamente teatrale, godibile. Le scene a cura di Lino Fiorito forniscono uno sfondo ideale dove a muoversi è prima di tutto la condizione fisica dell’attore offerta allo sguardo dello spettatore, che interagiscono con le già citate luci di Accetta, creando infiniti spazi e rendendo denso un ambiente che altrimenti risulterebbe troppo sterile. Se nel testo di Eduardo il dramma si compie con il riconoscimento del fallimento dell’umanità, Servillo aggiunge la propria poesia e la propria bravura senza sovrapporsi al testo ed esalta ancora di più la convenzione teatrale. Parlare di meta-teatro sarebbe superfluo, qui parliamo di Teatro, di attori veri e di accettare una finzione. La condizione metafisca della messa in scena è evidente – vedi il quadro surrealista di sedie appese nel vuoto – eppure ci sono una serie di elementi che ci riportano alla realtà concreta. La regia costruisce sul testo un meccanismo di carnalità che fornisce concretezza alle relazioni dei vari personaggi. I dialoghi diventano incontri di boxe e fisiche sono le interpretazioni. Come non sottolineare la recitazione vocale dei fratelli Servillo attraverso la variazione di toni sulle ripetizione delle battute. Peppe Servillo, avvoltoio da testo e da scena, da vita al personaggio di Carlo. La storia vera/falsa dei due fratelli funziona, ma lo stesso non vale per tutti i personaggi. Risulta troppo evidente lo scarto tra le generazioni di attori e sembra che ci sia una sorta di difficoltà nel differenziarsi, da parte dei più giovani, dal modello recitativo di Toni Servillo. Il 4 gennaio 2014, Alessandro Toppi, sulle pagine web de ilpckwick.it ben sintetizza questa situazione parlando di “vizio del capocomicato”, inteso come la ripresa di una prassi datata e legata ad una organizzazione teatrale che ha dimostrato di essere alla lunga infruttuosa, perché per i giovani diventa ancora più difficile succedere ai loro maestri. “La sensazione è di assistere a una ripresa del capocomicato di tradizione, con un vertice interpretativo dominante accompagnato da attori di cui, in progressione, diminuiscono con evidenza le capacità e la presenza di scena. La differenza, in alcuni momenti, è tale da risultare quasi intollerabile. È il vero appunto da muovere ad uno spettacolo che è stato in grado di far tornare il San Ferdinando degno della sua tradizione” (Ma quale pirandellismo).
«Assassini, siete, e ve lo provo subito». Quando in sala suona un cellulare e gli attori sono costretti a fermasi per poi riprendere lo spettacolo, succede che si rompe la poesia, quel pathos, quell’atmosfera ricercata dagli autori e dagli interpreti. L’assassinio si compie veramente: «non potete immaginare quanto sia mortificante» dirà Servillo. Viene da chiedersi che senso ha comprare un biglietto per poi lasciare la suoneria al cellulare? Che senso ha andare a teatro e non credere a quello che si sta vedendo? Le poltrone rosse del San Ferdinando sono forse “provate dalle ormai svogliate «feste» e «festicciuolle» dei poveri vicoli Napoletani” come scriveva Eduardo nell’ultima nota al testo de “Le voci di dentro”?