La leucemia nei bambini era vissuta come una sentenza: meno del 10 % dei piccoli pazienti riusciva a superare i cinque anni dalla diagnosi
Leucemia infantile: da “sentenza di morte” a malattia curabile
Fino agli anni Sessanta, la diagnosi di leucemia nei bambini era vissuta come una sentenza: meno del 10 % dei piccoli pazienti riusciva a superare i cinque anni dalla diagnosi. Il quadro era triste e abbattente, tanto che il termine “reflusso” associato ai propositi terapeutici era sinonimo di speranze vane.
La svolta si verificò con l’introduzione dell’aminopterina – un antagonista dell’acido folico – seguito dal 6‑mercaptopurina alla fine degli anni Cinquanta. Questi agenti, pur avendo rimosso temporaneamente il tumore, non impedirono la recidiva: il recupero durava pochi mesi, pur infondendo un barlume di speranza.
Fu la combinazione di più farmaci – il regime VAMP (vincristina, aminopterina, 6‑mercaptopurina, prednisone) sperimentato nel 1961 – a segnare il vero cambiamento: remissions durature nel 50–60 % dei bambini, addirittura pluriennali, e nuovi protocolli negli anni successivi.
Tra il 1967 e il 1968, grazie ai lavori del Dr. Donald Pinkel e del Children’s Oncology Group, la combinazione di chemioterapie sistemiche e intratecali permise di ottenere un tasso di guarigione intorno al 50 % nei casi di leucemia linfoblastica acuta (ALL). Questa disciplina terapeutica sperimentale – e in parte innovativa – pose le basi per l’attuale cura integrata. Parallelamente, Sidney Farber fu tra i pionieri del pensiero che avrebbe portato alla chemioterapia moderna: già nel 1947 dimostrò l’efficacia dell’aminopterina negli sforzi iniziali contro la leucemia pediatrica.
Nei decenni successivi, il perfezionamento dei trattamenti – in particolare per l’ALL – ha fatto salire le percentuali di sopravvivenza oltre l’85‑90 % nei Paesi ad alto reddito . Attualmente, circa l’85 % dei bambini supera i cinque anni dalla diagnosi in Europa e Nord America; nei casi più favorevoli (ALL nei bambini tra 1 e 9 anni), la guarigione può raggiungere il 95 %. Anche i casi più ostici, come la leucemia mieloide acuta (AML), hanno beneficiato di nuove terapie: i tassi di sopravvivenza a cinque anni sono saliti dal 14 % degli anni Settanta a oltre il 60 % oggi.
Se è vero che la prognosi nei Paesi sviluppati ha compiuto un balzo straordinario, permangono grandi disuguaglianze a livello mondiale: in molte aree a basso reddito i tassi di sopravvivenza sono ben inferiori, a volte intorno al 50–70 % . Inoltre, non tutti superano indenne la malattia: alcuni tumori recidivano, altri hanno mutazioni resistenti, e i pazienti possono sperimentare effetti a lungo termine (secondarie neoplasie, problemi organici, infertilità).
Il nuovo orizzonte punta su anticorpi monoclonali, inibitori di specifici target molecolari e terapie cellulari, inclusa l’immunoterapia CAR‑T. Questi approcci hanno già mostrato promesse concrete nei tumori ad alto rischio, sebbene in molti casi si stiano ancora perfezionando in centri dedicati. Infine, la medicina genomica permetterà di profilare i casi nei dettagli, ottenere cure sempre più precise e minimizzare gli effetti collaterali, garantendo una qualità di vita sostenibile dopo la remissione.
Foto di Gerd Altmann da Pixabay
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