(Adnkronos) – Avrebbe ”preferito morire, piuttosto che essere catturata e portata come ostaggio nella Striscia di Gaza, perché quello che fanno lì ai rapiti è peggio della morte. Soprattutto in quanto donna”. Non ha dubbi Laura Kadar Blajman, cittadina israelo-francese sopravvissuta al massacro del 7 ottobre, che dice di aver ritrovato la forza di parlare con l’Adnkronos dopo aver visto il video fatto circolare dalla Jihad Islamica di Yagil Yaacov, il bambino di 12 anni rapito poco più di un mese fa.
”Assomiglia tantissimo a mio nipote, tra le mani dei rapitori poteva esserci lui”, racconta ammettendo la ”difficoltà a parlare”, ma ”il nostro cuore è con gli ostaggi a Gaza” e ”il mondo deve capire che non possiamo fermarci fino a quando non li riporteremo a casa”. Perché ”non è la prima volta che Hamas ci colpisce, ma ogni volta è peggio. E non possiamo permettere che la prossima volta sia qualcosa di simile”. Quelli che si stanno vivendo, afferma, ”sono giorni veramente difficili per tutti, anche per la popolazione di Gaza, che dobbiamo liberare da Hamas, che è la causa di tutto”.
E ”alla fine ci saranno due vincitori, israeliani e palestinesi”. Lei, che ricorda che era nell’esercito israeliano quando fu liberato Gilad Shalit, oggi organizza eventi musicali. Il 5 e 6 ottobre scorsi, nello stesso luogo in cui si è svolto il rave ‘Supernova’ attaccato da Hamas nel deserto del Negev, insieme al marito aveva organizzato lo ‘Unity Festival’. Poche ore e sarebbe stato il suo, di Festival, a essere trasformato in una carneficina. Perché quel luogo, così vicino alla Striscia di Gaza, per gli israeliani era considerato non particolarmente pericoloso. ”Israele è molto piccolo come Paese, viviamo sempre vicino a qualcosa” che potenzialmente non è sicuro, spiega.
Quel giorno, la producer aveva ”tolto tutti gli allestimenti” dello ‘Unity Festival’ e deciso di restare anche per il ‘Supernova’, insieme al marito e agli amici, tra cui anche il ”padre con la figlia disabile che venivano tutti gli anni al Festival e che sono stati trovati senza vita dopo il massacro di Hamas”. Con il marito e cinque amici, è invece riuscita a sopravvivere ”nascosta per sei ore nel furgone”, pensando più volte di morire, mentre i miliziani di Hamas cercavano ripetutamente di entrare.
”Hanno cercato di aprire la porta del furgone, gli hanno sparato contro, hanno cercato di dargli fuoco cospargendolo con del liquido”, racconta. E alla fine, quando sono arrivate le Forze di difesa israeliane (Idf), è uscita e ”la morte l’ho vista. Era tutto disseminato di cadaveri. Sembrava un film sull’Olocausto, ma non lo era. Perché le vittime erano tutte giovani, colorate, vestite a festa…Non c’era la neve, ma il sole, non era inverno”.
E’ ”difficile descrivere quello che ho visto, hanno sparato alle vittime alla testa per essere sicuri che morissero”. Gli uomini di Hamas ”hanno ucciso anche i musulmani. Perché anche se sapevano recitare un versetto del Corano come richiesto, sono stati accusati di ‘camminare con gli ebrei”’. All’inizio ”pensavamo a un attacco con i missili e i razzi come tanti a cui siamo abituati, non era certo la prima volta”, ma ”ci hanno avvisato che c’erano terroristi ovunque che sparavano.
Abbiamo iniziato a scappare e, dato che sono stata capitano nell’esercito, ho capito che il problema non erano i razzi, ma le armi automatiche. Non avremmo avuto scampo”. Una volta entrati nel furgone, ”dopo trenta secondi abbiamo sentito i terroristi di Hamas urlare ‘Allah Akhbar’, abbiamo sentito gente piangere, scappare ovunque, abbiamo sentito gli spari”.
Dopo di che, ”il silenzio e tantissima paura”. Fino a quando ”abbiamo sentito di nuovo i terroristi, che per due volte hanno cercato di aprire la porta del furgone, senza riuscirsi”. Hanno anche ”guardato dentro, ma poi hanno visto qualcuno fuori, vivo, gli hanno sparato”. Ma ”hanno sparato anche al furgone, per due volte, una volta vicino a dove si trovava mio marito. Ho avuto la sensazione di perdere conoscenza, poi abbiamo di nuovo sentire i terroristi fuori che cantavano, gridavano, guidavano con la macchina in cerchio”.
L’incubo prosegue, ”mio marito che capisce l’arabo ha sentito che i terroristi che dicevano che c’ere gente dentro il furgone. Abbiamo pensato che fosse arrivata la nostra fine”. A quel punto la producer ha mandato un messaggio a ”un amico nell’esercito per dirgli che era finita e di mandare un pensiero ai nostri genitori. Ho guardato mio marito, non potevamo toccarci, ma ci siamo detti che ci amavamo. Poi ho chiuso gli occhi e ho aspettaro di morire”. Tanti i pensieri nella testa in quegli interminabili momenti.
”Ho avuto paura che mio marito fosse il primo a morire perché era vicino alla porta, non volevo sopravvivergli. Volevo morire con lui, speravo solo di morire velocemente”, afferma Blajman, aggiungendo che ”preferivo morire che essere presa in ostaggio a Gaza. Soprattutto in quanto donna, preferivo che mi uccidessero piuttosto che mi stuprassero”. E adesso, da sopravvissuta, ”cerco di andare avanti, giorno dopo giorno” anche se ”non riesco a lavorare, non riesco a leggere, niente”.
Da Alma, dove vive nel nord di Israele, spiega che ”tornata a casa ho trovato i miei vicini sono arabi musulmani che ci stavano aspettando, che ci hanno preparato cibo, che hanno pregato e pregano per noi tutti i giorni”. Inoltre, aggiunge, ”quando ci nascondiamo dai razzi, lo facciamo ebrei e musulmani insieme. E’ questo che il mondo deve capire”. Lei, che il 9 ottobre avrebbe dovuto festeggiare il suo compleanno nel Sinai con gli amici in Egitto, lancia un appello di convivenza: ”dobbiamo liberare Gaza e i palestinesi da Hamas” che è ”la causa di tutto”. Anche ”i palestinesi stanno cercando di fuggire, ma non ci riescono”.
—internazionale/esteriwebinfo@adnkronos.com (Web Info)