Antilope. Mi chiamo Antilope. Dovrei averne un altro di nome, ne ho un altro. Il mio nome vero è scritto sulla carta d’identità, ma a me non piace, quando mi chiedono di tirarla fuori mi incazzo perchè poi non posso più credere di chiamarmi Antilope. Sono quasi sempre le guardie a chiedermi i documenti, quando mi fermano. Le guardie e mia madre, sono rimasti solo loro a chiamarmi con l’altro nome, quello che non mi piace, quello che odio, perchè a me piace chiamarmi Antilope. Così mi chiamano tutti, questo è il nome con cui mi conoscono tutti qui al Quarticciolo. Antilope.
Quando sono nato mi hanno battezzato con l’altro nome. Ho visto le foto del battesimo, ci sono io con una camicina bianca in braccio a mia madre, e le candele e l’incenso e tutta la liturgia intorno, l’olio e l’acqua e un prete che non conosco e il nome, l’altro nome, quello che sta scritto sulla carta d’identità e non mi posso dimenticare di averlo.
Quello con cui mia madre si ostina a chiamarmi anche quando parla di me con gli altri, quello che ha scelto lei e lei si pensava che mi piacesse. Invece a me quel nome lì mi fa cagare e una volta gliel’ho anche detto. Secondo lei quel nome di merda mi sarebbe dovuto piacere perchè è un nome “bello”, un nome americano. Kevin, mi ha chiamato, ‘sta stronza, manco fossi un attore o un fighetto dei Parioli. Kevin, roba da vergognarsi a uscire per strada, a mettere piede in bisca e sentirsi salutare “ciao Kevin, come stai?”.
Quel giorno che le ho sputato in faccia che quel nome mi fa schifo e non voglio che mi ci chiami, che non voglio che quando parla di me mi chiami Kevin, è rimasta senza fiato e si è coperta la bocca con la mano e a me non so mi faceva più schifo quella mano di vecchia, arrossata, con la pelle spaccata, quella mano che puzza sempre di varechina scadente, o se mi faceva più schifo vedere la sua bocca spalancata con il buco nero di un dente davanti che manca.
Gliel’avrò detto mille volte, con le buone, giuro che ci ho anche provato con le buone, e con le cattive, urlandole addosso; te lo pago io il dentista, vatti a far rimettere quel dente che mi fai schifo che vai in giro così, che pari una vecchia, che ridi in mezzo alla strada e la gente ti vede quel buco e io mi vergogno che sa che sei mia madre. Lei invece niente.
<Ma che ti importa, tanto io sono vecchia e non fa niente se mi mancano i denti. Tanto a me chi mi guarda? I soldi usali per te, che lavori e ti meriti di divertirti.>
E’ ancora convinta che io lavoro, la stronza, che ha poco più del doppio dei miei anni e pare una vecchia. Che poi mica lo so se è convinta veramente o se vuole solo fare finta di crederci. Finchè ero un ragazzino era lei che mi mandava in giro da tutte le parti, provando a farmi lavorare. Da garzone, da commesso, da apprendista stagnaro, perfino il muratore mi ha mandato a fare. Mi ci incazzavo da avere le lacrime per la rabbia a vederla elemosinare un lavoro per me anche quando ero presente, a parlare di me con gli altri che mi pareva che mi stesse a vendere come uno schiavo, uno bravo che ha tanta voglia di fare.
Tanto andava a finire sempre alla stessa maniera. Dopo una settimana al massimo non mi presentavo più in bottega o al cantiere, se andava bene. Perchè una volta a uno di quegli idioti gli ho tirato un martello che se lo prendevo gli spaccavo la testa. Idioti piegati in due dalla fatica e dalla rabbia di essere loro degli schiavi, che credevano di potermi dare ordini solo perchè “loro lavorano da venti anni”. Ma secondo te io devo farmi rovinare la vita, perchè tu ti sei rovinata la tua a spezzarti la schiena per un piatto di pastasciutta? A fare lo schiavo e dire sempre sì, solo per portarti a casa due soldi e magari pagare la vacanza al mare a tua moglie che magari ti riempie pure di corna? Ma vaffanculo tu e il tuo lavoro di merda.
Alla fine per levarmela dai coglioni le ho raccontato che ho trovato lavoro da solo, che vado in giro a fermare la gente per strada, a fare interviste, a vendere i libri, raccogliere firme per qualche cosa o roba così. Tanto l’idiota non sa manco di che sto parlando e allora ci crede che io lavoro, però posso dormire la mattina fino a quando mi pare e poi tornare a casa tardi la notte. Certe volte non ci torno proprio. Anzi, l’imbecille è tutta contenta e va in giro a raccontare che “il suo Kevin ha trovato un bel lavoro”.
Mi immagino le risate che si fanno alle sue spalle, appena si gira. Perchè qui al Quarticciolo lo sanno tutti, che “lavoro” fa Antilope. Antilope, non Kevin. Perchè mi vedono in giro a ciondolare tra la bisca e il bar, a consumare i muretti e il marciapiede. Magari qualcuno glielo dice pure, ma lei cretina com’è non ci vuole credere e pensa che sia solo invidia degli altri. A volte mi chiedo come cazzo è possibile che io sia figlio suo. Si vede che ho ripreso tutto da quell’altro che non c’è, si vede che ha fatto bene lui a fregarsene e lasciarla da sola, se rompe i coglioni a me posso immaginare quanto li poteva rompere a lui.
Mio padre. Di mio padre non so nulla, anche perchè non c’è proprio niente da sapere. Mai conosciuto, mai visto. Anzi, mai sentito neanche nominare. Che se non avessi capito da solo a un certo punto della vita che per fare i figli serve anche un padre io avrei continuato a pensare che mia madre mi avesse fatto da sola.
Non riesco nemmeno a odiarlo, mio padre. Per odiare qualcuno devi averlo conosciuto, deve averti fatto qualcosa di cattivo, invece per me semplicemente lui non esiste. Se anche mi indicassero uno per strada <Guarda, lo vedi quello? E’ tuo padre.> io direi solo “sticazzi”, ma mica per fare il superiore. Sarebbe solo la verità. Mio padre non mi ha mai fatto nulla di cattivo, neanche andarsene è stata una cattiveria a me. Io per lui non esisto, non sono mai esistito, allora che cazzo, perchè dovrei pensare che lui esista per me?
Un giorno che la notte prima non ero rientrato mia madre ha provato a dirmi <Kevin, se non torni la notte avvisami, che io sto in pensiero.>
L’ho messa a posto subito, mi è bastato guardarla dritta negli occhi senza neanche risponderle. Mi sono accorto presto che a mia madre basta guardarla negli occhi per metterle paura, terrore, anche con gli altri quando ci parla, non riesce mai a guardarli in faccia, sta sempre a fissarsi i piedi o a guardare per aria da qualche altra parte. Ci manca solo che mi metto a rendere conto a lei di cosa cazzo devo fare io il giorno e pure la notte.
C’è stato un periodo qualche tempo fa che ho pensato che prima o poi avrei dovuto metterle le mani addosso per farle capire che ormai non mi deve più dire nulla, non mi deve rompere il cazzo facendo finta di essere una brava mamma con il figlio; poi però non ce n’è stato bisogno; ho capito questa cosa di guardarla negli occhi ed è come se lei lo avesse sentito e ha smesso di rompere i coglioni, di chiedere e anche di far finta di essere interessata a quello che faccio.
Adesso mi da quasi più fastidio il suo sguardo da pecora pronta a farsi macellare, il respiro che sento venire da quel buco umido e nero che è la sua stanza, quando rientro a casa la notte e lei vorrebbe farmi credere che dorme, come se io non fossi capace di riconoscere la differenza di respiro tra uno che dorme e uno che fa solo finta.
Le prime volte provava a dirmi qualcosa, con la voce moscia e trascinata; faceva una lagna tipo <Kevin? Sei tu? Ma che ore sono?>
All’inizio le rispondevo anche <Sì ma’, sono io, dormi che è tardi.>, quando invece avrei voluto risponderle <Ma dormi, brutta stronza, invece di stare lì ad aspettarmi come se volessi farmi sentire in colpa, ancora non l’hai capito, che non ci riesci? Dormi e non rompermi i coglioni e non chiamarmi Kevin, maledetta te e quel nome di merda. Mi chiamo Antilope, capito? A N T I L O P E!”
L’ho fatto, alla fine. Una notte che era andata buca e sono tornato a casa con il culo storto, la coca ancora dentro che mi prudeva il naso e avevo il solletico al palato, la lingua addormentata, la rabbia e l’eccitazione che mi fumavano nelle vene e mi bruciavano il cervello. Un vecchio del cazzo, vai a capire perchè, non gli aveva fatto effetto il sonnifero che avevamo spruzzato sotto la porta e mentre stavamo entrando dentro la camera da letto si è alzato con le gambe e le mani che gli tremavano e alzando la voce. Barcollava tutto, non si reggeva in piedi.
<Chi siete? Che volete? Andatevene o chiamo la polizia!>
Minacciava pure, il vecchio coglione. Invece di piangere e implorare, minacciava. Se Spillo non me lo levava da sotto l’avrei massacrato, l’avrei ammazzato di calci. Poi siamo dovuti scappare via di corsa, perchè con i suoi urli e gli strilli della sua vecchia che piangeva mentre gonfiavamo il marito rischiavamo che qualcuno del palazzo potesse veramente chiamarla, la polizia.
Quando sono rientrato a casa, ancora fatto di coca e di rabbia e quella lagna mi ha fatto le solite domande, allora sono sbottato e gliel’ho urlato di non rompermi il cazzo, di non farmi domande e starsi zitta e basta. Per questo adesso quando torno si sente solo quel respiro finto. Fa perfino il verso di russare, come un sibilo. Invece a me pare di vederli quegli occhi spalancati, bianchi e immensi nel buio della sua stanza, si vedono solo quelli che stanno a mezz’aria tra il letto e il soffitto, sospesi e staccati da lei. Come gli occhi delle lumache, in cima alle corna, lucidi di bava.
Antilope. Una volta un fighetto di Centocelle ha provato a sfottermi. Eravamo andati a farci un giro per via dei Castani, piena di vetrine e di luci, di belle famigliole che passeggiano spingendo i passeggini. Il sabato prima alla festa di San Felice avevo rimorchiato due pischelle e insieme a Spillo e Scaglia ci eravamo spostati a cercarle fino lì, per una volta avevamo attraversato la Togliatti e non era per andare a rubare. Le avevo ritrovate, se ne stavano insieme a certi farlocchi, un gruppetto in comitiva.
Ce li avevano presentati, come se per noi fosse una cosa importante conoscerli, “farci amicizia”. Con Spillo e Scaglia ci abbiamo pure provato a fare gli educati, le pischelle meritavano, valeva la pena fare un po’ finta e non mettergli paura, magari qualcosa da farci ci si rimediava. Siamo scesi con loro al parchetto di via Togliatti e lì ci siamo messi intorno a una panchina a passarci una sigaretta. Per fare i bravi non avevamo manco tirato fuori il fumo e ci stavamo accontentando delle sigarette.
Allora uno di questi, l’avevo già notato perchè si vedeva che era quello che si sentiva più figo degli altri ha provato a guardarmi negli occhi e poi con la voce di sfida ha detto <Antilope? Ma che nome è, Antilope?>
Immagine di copertina: DepositPhotos