Abbiamo parlato nell’articolo NAPOLI. PORTA CAPUANA, L’INSULA DELL’INIZIATIVA PRIVATA (1a parte) dello studio ideato e coordinato dalla prof. Caterina Arcidiacono, in collaborazione con la Carlo Rendano Association, chiamato Psychology Loves Porta Capuana rivolto all’analisi psicologica di una comunità sociale per metterne in luce caratteristiche identitarie, disfunzioni, per ricostruire l’identità storica e funzionale di un intero quartiere e, proprio per questo, strumento prezioso per istituzioni a cui spetta intervenire per la riqualificazione urbana ed economica di aree della città e che, almeno pubblicamente, non hanno canali di ascolto delle comunità tutte che vivono quelle aree.
Dello studio in corso abbiamo parlato con la prof. Filomena Tuccillo ricercatrice in Psicologia di comunità e parte del team di ricercatori che vi operano.
È la prima volta che a Napoli si attua uno studio del genere?
Sì, diciamo che in questo la prof. Arcidiacono è un po’ sui generis. Lei ama mettere in pratica quello che insegna solo che a volte questo approccio viene visto positivamente, anche dalle istituzioni, altre volte non si è pronti per uscire dalle quattro mura dell’università.
Considerando l’Italia invece studi di questo genere vengono utilizzati per pensare politiche urbane o socioculturali sul territorio?
Beh non sempre anche perché sono rari. Occorrono competenze, e poi si ha paura anche di scendere in campo dove si incontra un contesto, una cultura e delle abitudini con cui non possiamo e non dobbiamo approcciarci come professori in cattedra, un contesto nel quale siamo sostanzialmente ospiti, estranei.
Quali sono stati i risultati di questo studio?
Stiamo analizzando le interviste realizzate a cittadini, associazioni, scuole, albergatori, istituzioni, commercianti, ristoratori e contiamo di presentare i risultati per settembre. Possiamo già dire però che ci troviamo di fronte ad un contesto molto resistente, che non c’ha consentito con facilità di entrare per quanto voglia un cambiamento dell’area, perché pur desiderandolo se lo aspettano dagli altri, dall’alto e più che speranza pare ci sia rassegnazione. Per questo abbiamo dovuto rinunciare a proporre un questionario, risposte puntuali non ne avremmo avute.
Incapacità di pensare il miglioramento, quindi c’è forse anche incapacità di collaborare e quindi di sentirsi tutti una comunità?
Sì, il quartiere è come un ghetto in cui in più c’è la componente molto sentita dell’immigrazione e non sempre è ben vista però è emerso che gli stessi stranieri è come se avessero creato il loro ghetto. Insomma due realtà che fanno fatica a comunicare.
Le istituzioni hanno mostrato interesse per lo studio e disponibilità ad usarlo?
La settimana prossima il progetto di studio verrà presentato al Comune. Tutte le istituzioni che abbiamo ascoltate durante le interviste si sono mostrate aperte al confronto ma dobbiamo verificare se c’è riscontro tra la realtà e ciò che le istituzioni c’hanno raccontato.
Della componente multietnica dell’area di Porta Capuana e del confronto con essa abbiamo parlato invece con la prof. Fortuna Procentese a capo del team che ha intervistato gli stranieri che in vario modo abitano il quartiere e che sono espressione di più gradi di integrazione tra le diverse etnie e tra queste ultime e i napoletani indigeni, stranieri che costituiscono una specifica presenza da cui si sviluppano istanze e modi di vivere che gioco forza devono armonizzarsi con esigenze e abitudini di chi ha tutt’altra cultura e tradizioni. In quest’ottica provvedimenti calati dall’alto per incentivare, ad esempio, la liberalizzazione del commercio diventano motivo di tensione e distanza, un ostacolo alla costruzione di una comunità.
Sappiamo che l’analisi delle interviste è ancora in corso, ma cosa ha evidenziato fin ora lo studio rivolto alla componete multietnica del quartiere?
Tutti i migranti vivono la zona come spazio di incontro con i loro connazionali. alcuni si sono integrati molto bene potendo anche aprire attività di ristorazione o di vendita di prodotti tipici.
Credo che vi sia un grande potenziale per creare un processo di conoscenza reciproca tra etnie diverse che consenta di vivere la zona come luogo di espressione e riconoscimento reciproco e non solo come luogo di consumo e per attività commerciali fini a sé stesse ma come risorsa e riqualificazione delle relazioni e riqualificazione e fonte di espressione culturale. Per far questo bisogna superare i pregiudizi attraverso la conoscenza dell’altro, negoziando norme condivise e una giustizia sociale che favoriscano una convivenza responsabile.
Considerando ormai la presenza di un’immigrazione di seconda generazione, come si proiettano nel quartiere e nel suo futuro?
Sperano di vedere un luogo più pulito e curato. Alcuni invece desiderano concludere il loro percorso migratorio tornando nel proprio Paese, per cui sperano che siano i napoletani ad accorgersi della bellezza dei luoghi e della cultura che rappresentano per poter migliorare le condizioni sociali e culturali della zona.
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