Neologismi, ormai, se ne confezionano tre a settimana. Vocaboli tanto usati da diventare logori e sciatti – qualcuno anche irritante – nel giro di pochissimo tempo. C’è, poi, immancabilmente anche chi preso da rigurgiti “ventennali” si spende perché si conservi l’italianità del nostro lessico.
Facciamo i conti con un periodo molto difficile in cui tutto quello che viviamo si amplifica in maniera assolutamente fuori dal normale. Tutto quanto ci sembrava acquisito fino a poco tempo ora diventa un miraggio da riconquistare con tenacia e, a volte, anche tanta fantasia.
Naturalmente il nostro linguaggio si adegua ai tempi che viviamo, spesso con l’apporto di parole mutuate da altre lingue che riescono ad essere più aderenti alle situazioni e flessibili in confronto all’italiano che s’incardina su regole ferree e precise e poco si presta.
Web, social e tv la fanno da padroni incontrastati nella trasmissione del linguaggio, inutile celarsi dietro a encomiabili sforzi dialettici di valenza culturale alta. Sono due strumenti che, ovviamente, perpetuano più la lingua parlata che quella ufficiale. Storpiamenti da influenze dialettali, ma spesso anche i singoli dialetti utilizzati sono dilaniati da slanci di scrittura che definire totalmente inventata è dire poco.
Il ruolo dell’informazione, come sempre ormai, è totalmente inesistente e tanti articoli di giornali sembrano più che altro essere stati scritti con un gatto che passeggia sulla tastiera, ma tant’è. Le parole di Eco riecheggiano sinistre e verissime.
Neologismi e parole inflazionate: resilienza e furbetti
Su due parole ci vorremmo soffermare qui, non con intenti di esaustività sia chiaro ma semplicemente come esempi: Resilienza e Furbetti, scritte qui con la maiuscola volutamente perché sono diventate ormai categorie non più semplici vocaboli.
Categorie del pensare comune e dell’ insipienza culturale e lessicale che ci avvolge come in una marmellata grammaticale viscida e vischiosa da cui non ci si riesce a tirare fuori.
Resilienza – sostantivo femminile – capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
c’è poi il significato traslato in psicologia
Bell’intento quello, in origine, di restituire verbalmente una figura plastica dell’esempio di quello che ‘dovrebbe essere’ l’atteggiamento giusto per sopportare e superare le avversità “ammaccandosi e flettendosi” ma non rompendosi mai!
In realtà quello che ha ‘rotto gli zebedei’ è proprio l’uso indiscriminato, melenso e protervo allo stesso tempo di questo termine applicato ad ogni azione della vita quotidiana nel perfetto stile dei pomeriggi televisivi tristemente famosi e dediti al racconto drogato della realtà secondo il politically correct (si, proprio così, scritto in inglese per forza e volutamente a sfregio dell’italianismo d’accatto da prima l’italiano).
Furbetto/i furbétto agg. e s. m. (f. -a) [dim. di furbo]. – Furbo e malizioso, ironico o spregiativo.
Termine sempre usato per sbattere i destinatari al pubblico ludibrio
Fare il furbetto. Chi si comporta in modo fraudolento violando o aggirando le regole
Anche qui vale lo stesso identico discorso fatto poco sopra per l’altro termine con l’aggravante dell’uso spregiativo, sprezzante che viene usato sempre con effetto ex ante e non certo ex post l’accertamento delle condotte che si vogliono stigmatizzare.
Un termine tanto caro a certa informazione (chiediamo scusa a chi ancora si dedica a fare questo mestiere con scienza e coscienza, come si diceva un tempo) gridata che fa dell’aizzare gli animi la propria ragione d’essere e che conia il furbetto del quartierino, il furbetto del cartellino e oggi il furbetto del vaccino preoccupandosi solo di etichettare e indignare mica di approfondire ed informare davvero.
Quell’informazione che oggi si propone come mainstream (idem a quanto più su circa i vocaboli inglesi n.d.r) e che mirabilmente il signor G. apostrofava così già trent’anni fa:
... Compagni giornalisti avete troppa sete
E non sapete approfittare delle libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare
Ma quello non lo fate
E in cambio pretendete la libertà di scrivere
E di fotografare
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questa Italia piena di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate
Senza tremare un momento
Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima in primo piano ...
Giorgio Gaber - Io se fossi Dio - Il teatro di Giorgio Gaber - 1982
La necrofilia del lessico giornalistico odierno emana quell’olezzo nauseabondo tipico che arriva dritto dalla mancata indipendenza di chi scrive che – in tantissimi casi – non svolge più la sua funzione scomoda di fare le pulci al potere ma quella di passa-veline del potere.
Un giornalismo che è sempre più partner e non terzo di potere politico, potere economico, potere giudiziario e potentati ‘baronali’ vari che, non solo non amano la critica ed il contraddittorio, ma che tendono a minare e demolire l’avversario con azioni di ogni tipo a partire dalla distruzione dell’immagine fino alla delazione giudiziaria.
Non stiamo scoprendo nulla di nuovo, sia chiaro, e non abbiamo nemmeno verità confezionate in tasca.
Ci fidiamo solo del nostro punto di osservazione sul mondo da cui raccontiamo, fedelmente e sommessamente, con la nostra voce. Spesso scegliamo di estraniarci dalla contesa informativa perché ci appare totalmente inutile. Stay human questo vorremmo che rimanesse nel nostro linguaggio e nell’agire quotidiano. Umanità, questa sì una parola totalmente dimenticata e bandita dal nostro lessico e dal nostro sentire.