Il governo svedese ha preso una decisione tanto sorprendente quanto molto discutibile. Dopo circa 50 anni ha ripristinato, almeno temporaneamente, i controlli alla frontiera con la Danimarca. Il ponte che collega, anche simbolicamente, Copenaghen con la città svedese di Malmö non è più liberamente percorribile.
Una decisione sorprendente perché la Svezia ha sempre fatto dell’accoglienza un suo tratto distintivo, un elemento di riconoscimento non solo rispetto al resto dell’Europa ma anche rispetto agli stessi paesi scandinavi. Negli ultimi decenni la Svezia è sempre stato il primo paese europeo per richieste di asilo accolte; sono state circa 140 ogni 100.000 abitanti solo nel primo semestre del 2015. Per fare un paragone, nello stesso periodo l’Italia si è posizionata al dodicesimo posto in Europa (appena sopra il Lussemburgo) con circa 20 richieste d’asilo accolte ogni 100.000 abitanti.
Una decisione contro la stessa storia svedese, contro quello che la Svezia ha rappresentato negli ultimi decenni. Una decisione che è anche sbagliata perché non può risolvere il problema dell’immigrazione e dei rifugiati politici e che rischia di creare una reazione a catena. Il premier danese Rasmussen non si è fatto attendere e ha introdotto controlli alla frontiera con la Germania. D’altra parte la Danimarca ha un atteggiamento non proprio ‘morbido’ al riguardo e il suo governo ha già proposto la confisca dei beni degli immigrati (oltre una cifra minima) quale compensazione per le spese sostenute dallo stato, oltre che una revisione dei termini della Convenzione ONU sui rifugiati.
A sud della Danimarca la situazione negli ultimi mesi non è andata certo meglio. Malgrado le aperture di Merkel, la Germania ha già inasprito i controlli ai confini con l’Austria e il leader della CSU bavarese, Horst Seehofer, ha da poco chiesto al governo federale di non accettare più di 200.000 arrivi nel 2016. Le ultime notizie parlano anche dell’Italia, che starebbe pensando a misure alla frontiera con la Slovenia (che a sua volta ha già avuto un atteggiamento simile nei confronti della Croazia). E il quadro non è ancora completo; basti pensare alle estreme posizioni ungheresi e, dopo il recente cambio di governo, anche a quelle della Polonia. Il punto è che se queste misure sono approntate dal nazionalista ungherese Orban, in certo qual modo sono anche prevedibili. Ma quando provengono da un paese come la Svezia assumono un significato diverso perché denotano un cambiamento di rotta profondo e perché offrono anche una agevolissima scusa agli altri paesi europei.
E’ evidente che la situazione non si può risolvere con una reazione a catena in cui tutti i paesi si rinchiudono dietro le proprie frontiere nella speranza di scaricare l’onere sul vicino. Questi atteggiamenti di chiusura sono controproducenti, e non solo nel campo delle politiche migratorie (basti pensare agli effetti delle svalutazioni competitive o delle barriere al libero commercio). Affermare che la soluzione può venire solo da una comune azione europea non è sintomatico di un europeismo sfrenato ma frutto di sano pragmatismo. In effetti molti strumenti ci sarebbero già.
Il Summit di Malta con i paesi africani, il dialogo con la Turchia, il rafforzamento ulteriore di Frontex fino alla creazione di una sorta di ‘guardia costiera europea’, gli ‘hotspot’, i ricollocamenti tra i paesi europei, lo scambio dei dati sono tutti esempi di misure che congiuntamente potrebbero rendere il problema decisamente più gestibile. Ma i veti incrociati stanno rendendo queste misure lettera morta. Molte esistono solo sulla carta o sono state implementate in minima parte. In Italia gli hotspot aperti sono 2 su 6, in Grecia 1 su 5. A fronte della promessa di ricollocare 100.000 richiedenti asilo da Grecia e Italia, i ricollocamenti a oggi sono stati meno di duecento, i soldi per l’Africa e la Turchia non sono sufficienti e non si capisce bene chi e quando dovrebbe metterli a disposizione. Pretendere che i paesi extra-Ue ci prendano sul serio è davvero troppo. In gioco non c’è solo Schengen ma la credibilità stessa dell’Ue, già ai minimi storici. L’immigrazione è un problema molto serio e una sua sottovalutazione non aiuterebbe. Ma è un problema che l’Unione europea è in grado di affrontare. Il vero ostacolo non sono le risorse umane e finanziarie necessarie, e nemmeno la mancanza di idee.
Il vero problema è l’uso strumentale che molti partiti politici in giro per l’Europa stanno facendo della sfida delle migrazioni. Un tema che fa prendere o perdere milioni di voti.