“Non vediamo noi vivere individui ignari di scopo,
e negati a ogni forma di autocontrollo e coscienza?
Ed essi non già vivono malgrado queste loro lacune,
ma precisamente […] in funzione di esse.
Primo Levi, da Se questo è un uomo
E come potrei avere io un’idea robusta dell’eroismo guerriero, dato che gli esempi in tal senso nella mia famiglia sono
- mia zia che usava per scopi di cucina la baionetta conservata dal marito per ricordo della sua partecipazione alla inutile strage del 1915-18;
- un fratello di lei che morì per aver ingerito troppo aceto allo scopo di ammalarsi onde sfuggire alla medesima inutile strage;
- la storia di Tiretarenzapurtuà raccontatami da mia madre (sorella anch’essa della suddetta zia)?
Di questi tre esempi, i primi due sono, per dir così, antieroismo ideologico vissuto semiconsapevolmente: mia zia che demistificava l’eroismo praticamente, in cucina, e mio zio che tutto sommato preferiva morire malato piuttosto che ucciso. L’antieroica morte dello zio, poi, mia madre me la rivelò quando ero adolescente, nell’età in cui le ingenue e/o impertinenti domande infantili si esauriscono per partito preso o si fanno più petulanti per il medesimo partito preso. Me la disse quasi fra i denti, e solo in seguito alle mie domande precise e incalzanti. Me la disse però senza vergogna, come di cosa banale che non occorre dire ad alta voce.
Eppure quell’avversione alla guerra, viscerale e mite, reale quanto priva di recriminazioni e rivendicazioni, mi è rimasta attaccata addosso come una pelle, fa tutt’uno con me. Solo oggi la metto in relazione con il terzo episodio, quello che narro qui di seguito, e che ho intitolato “Tìrate ’a renza, purtua’!”.
A Napoli, corso Vittorio Emanuele è un serpente di strada che fu iniziato dai Borbone come corso Maria Teresa e completato sotto i Savoia e che va da piazza Mazzini, uno dei centri cittadini (Napoli, si sa, è una città policentrica, cresciuta grazie all’aggregarsi successivo di più periferie diventate volta a volta centri) fin quasi a Mergellina, il mare hyalinum amato da Sannazzaro (che non potrebbe più chiamarlo così, se è vero che l’aggettivo è greco e vuol dire “trasparente”).
I due estremi del corso hanno sempre rappresentato due realtà abitative molto diverse fra loro, tanto che ancora oggi, quando qualcuno dice di abitare al corso Vittorio Emanuele, è obbligato – come da una legge non scritta – ad aggiungere subito (ma non troppo forte) “lato Mazzini” oppure (con un appena accennato sorriso di falsa modestia) “lato Mergellina”.
Questo perché, pur nella comune stratificazione delle classi sociali, che coesistevano l’una con l’altra nello stesso palazzo (o meglio l’una sull’altra: al pian terreno portierato e bassi, il primo piano “nobile”, il secondo e il terzo abitato da piccola borghesia, quali il commerciante, il ragioniere, …), non ostante – dicevo – la stratificazione presente allora in tutti i quartieri di Napoli, la zona Mergellina del corso era stata occupata da una nobiltà più di rilievo, quella del lato Mazzini da un ceto per così dire meno importante. Perciò i veri signori abitavano a Mergellina, dove si godevano più da vicino il mare.
La mia famiglia abitava al lato Mazzini.
Il che però, in grazia della suddetta stratificazione, non voleva dire tout court che fosse gente spregevole, e questo in qualunque modo si voglia intendere la parola spregevole, se poveri o disperati o delinquenti, che (come tutti dichiarano ma pochi veramente sanno) non sempre sono la stessa cosa.
Siamo negli anni Dieci del Novecento, poco prima della prima guerra mondiale. Al corso Vittorio Emanuele lato Mazzini, al civico n. 491, abitava con la madre Carlo Sorvino detto Carluccio. Il piccolo appartamento, al piano terra, ha ancor oggi un terrazzo a livello della strada, dalla quale è separato da un vialetto sottostante e dal muretto che accompagna il tratto di marciapiede corrispondente.
Carluccio, a trent’anni suonati, era la disperazione della madre, e non tanto perché non aveva lavoro (lei lo manteneva serenamente col vitalizio lasciatole dal marito), quanto piuttosto perché amava follemente starsene sul terrazzo la domenica mattina e intonare canzoni o piccole frasi di sfottò a quelli che passavano. E siccome fra quelli che passavano non c’erano solo gli amici che rispondevano con motteggi o comunque in modo innocuo, la madre preconizzava spesso: “Quacche vvota pure me veco ’e purtà ’a cammisa toja ’nguacchiata ’e sanghe!”
E camicia sporca di sangue fu. Ma andiamo con ordine.
Fra i passanti abituali della domenica mattina non mancava mai Pascalotto Scarola con la sua fidanzata.
Figlio del guappo del quartiere, Pascalotto non aveva le qualità manageriali del padre, ma ne aveva ereditato tutta la boria e la sicumera con cui la famiglia si presentava la domenica alla messa, quando con sussiego appena rispondevano al saluto delle persone che si facevano da parte al loro passaggio. La giovane coppia appariva a Carluccio assai improbabile: lui tracagnotto, con gilè e cravatta in tinta, vistosi quanto la giacca a quadri di colori sgargianti; lei vestita di una modestia disarmante, in netto contrasto con la statura imponente che superava di alcuni centimetri quella del fidanzato: gli occhi bassi, certamente per timidezza e verecondia, sembravano guardare lui dall’alto in basso.
Pascalotto era certamente persona poco raccomandabile, di indole violenta, temuto da tutti nel rione. Non però da Carlo Sorvino, che, fin troppo dotato di italum acetum e troppo poco di prudentia, non rinunciava a stigmatizzare l’aspetto ridicolo del guappetto, che svolgeva in modo alquanto improbabile la sua parte di guappo innamorato, magari gloriandosi troppo visibilmente della vicinanza e dimestichezza con la damigella. La quale, nonostante le cravatte e i cappelli alla moda da lui sfoggiati, dava sicuramente nell’occhio più di lui.
La frase che scelse Carluccio per colpire Pasqualotto fu: “Fatti da parte, che quella è un osso troppo duro per te!” (vale a dire: la tua ragazza è così bella che… non è pane per i tuoi denti!), che in napoletano suonava, prima di questa mia laboriosa interpretazione, così: “Tìrate ’a renza, purtua’!” (letteralmente: “Tirati di lato, frutto molle”: il “purtuallo” è da noi l’arancia).
Le parole del dileggio erano quanto restava di un’espressione del secolo precedente, che nella sua forma originale alludeva al ruolo del “portunale”, cioè il portinaio, che doveva farsi da parte (“tirarsi ’a renza”) al passaggio del signore, e dunque doveva rendersi conto della propria condizione di subalternità. Il termine “portunale” era poi scomparso dall’uso, sicché nella frase, rimasta comunque viva nel suo senso metaforico e applicata a diversi contesti, si era deformato in un “purtulà” che, divenuto ormai incomprensibile, era sfociato nel facile “purtuà”, che aggiungeva al significato metaforico dell’espressione un carico da novanta di insulto, riferendosi a una mollezza che non poteva certo essere accettata da un sedicente guappo.
Il dileggio, perpetrato più volte dal terrazzo del civico 491 in concomitanza col passaggio della coppia, finì per produrre i suoi effetti nefasti.
Il timore della madre di Carluccio si rivelò fondato. Un giorno Pascalotto appostò Carlo Sorbillo e lo accoltellò.
La morte di Carluccio fu accolta con un silenzio timoroso dalla gente del quartiere, e l’arresto di Pasqualotto fu commentato solo a bassa voce qua e là, qualche volta anche con un “l’ha vuluto isso, però” (cioè: se l’è cercata).
Don Giovanni, il padre di Pascalotto, mise in campo tutto il suo potere per aiutare il figlio a far fronte ai suoi guai giudiziari. All’avvocato di famiglia, che era uno dei maggiori “paglietta” dell’epoca, non fu difficile sostenere la fattispecie del delitto d’onore, perché l’omicidio era causato dalla presenza di una donna il cui onore l’imputato doveva difendere. E così, un po’ con la bravura dell’avvocato, un po’ con le leggi dell’epoca, un po’ con appropriate unzioni, Pascalotto se la cavò con pochi anni di galera.
E non li fece nemmeno tutti, perché dopo poco tempo scoppiò in Europa e nel mondo il conflitto più esteso che si fosse mai visto, e a nulla servì la definizione di “inutile strage”, data dal papa Benedetto XV, di fronte agli interessi di coloro che vollero la guerra, e che riuscirono, come tutti sanno, a creare un’opinione pubblica che, se non forse maggioritaria, fu certamente prevalente grazie al più alto tono di voce e ai più estesi mezzi finanziari usati per sostenere la propaganda.
Ora, più che sul seguito giudiziario della faccenda mia madre poneva l’accento (comprensibilmente, dato lo scopo educativo dell’apologo) sia sulla violenza dell’uno che sulla stupidità dell’altro. Non mancava però di raccontarci, con una sfumatura di incredula disapprovazione che sempre traspariva nel suo narrare, come Pascalotto, da violento assassino, diventò eroe.
Fu mandato al fronte durante la I guerra mondiale. Forse i suoi guai giudiziari (se ne ebbe davvero) si risolsero in quella maniera: andando al fronte. Ed io mi sono ricordato di questo racconto di mia madre quando ho letto, nel libro Terroni di Pino Aprile, queste parole:
“La guerra si fa così: è la professione in cui, nel dolore degli idealisti, riescono meglio giocatori d’azzardo, mentitori, ladri, traditori e assassini. Gli uomini peggiori in tempo di pace diventano i più adatti nella stagione dell’offesa. È il tempo di Caino; e a chi caineggia bene e in abbondanza, si danno medaglie.”
Pascalotto, ora il soldato semplice Scarola Pasquale, fu messo fra gli “arditi”, quel corpo “speciale” composto in realtà da un miscuglio di poverissimi (senza raccomandazione di sorta) e delinquenti (più adatti al ruolo per vocazione): un misto di carne da macello e strumenti di sfondamento. E chi, se non le persone come Pascalotto, potevano far parte di quel glorioso corpo, specializzato nell’assalto alla baionetta?
L’epilogo della storia non poteva che essere questo: la categoria dei poverissimi moriva (a volte si salvava anche, per carità!), mentre la categoria dei delinquenti guadagnava medaglie (a volte moriva pure, in verità, ma sempre da eroe!).
Un giorno Pascalotto, essendo morto il suo capitano, prese il comando e condusse i compagni al vittorioso massacro dei loro coetanei nemici (aveva imparato a gridare “Savoia!”, aveva sufficiente rabbia in corpo, aveva bastante coraggio).
Il gesto gli guadagnò una medaglia.
Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine