Il rapporto dell’opinione pubblica con l’uso delle armi presenta una dicotomia profonda e apparentemente irrisolvibile: da un lato, c’è un’accettazione quasi passiva delle armi come strumenti di potere statale nella risoluzione di questioni internazionali; dall’altro, vi è un rifiuto netto dell’uso individuale delle stesse. Questa differenza di percezione affonda le sue radici in questioni culturali, politiche e morali che influenzano la narrazione pubblica e le priorità sociali.
Quando si parla di Stati e dell’uso delle armi, la loro legittimazione deriva da una lunga tradizione storica e istituzionale. I conflitti armati tra nazioni, spesso considerati tragici e deprecabili, sono giustificati in nome della sicurezza nazionale, della difesa dei diritti umani o della salvaguardia di interessi economici strategici. La retorica ufficiale tende a dipingere gli Stati come attori razionali che utilizzano la forza in modo mirato, solo come ultima risorsa e per obiettivi più alti rispetto agli interessi di un singolo individuo.
Uso delle armi: la dicotomia del sentire comune
Di conseguenza, l’opinione pubblica, bombardata da narrativa di legittimità e necessità, accetta spesso queste azioni come un “male minore” o addirittura come un imperativo morale. Tuttavia, dietro questa accettazione vi è una pericolosa rimozione della complessità: il sacrificio umano, le conseguenze ambientali e sociali dei conflitti e il perpetuarsi di dinamiche di potere globale diseguali.
Al contrario, l’uso individuale delle armi è percepito come una minaccia diretta al tessuto sociale. La violenza armata a livello personale, che si manifesta in crimini, atti di terrorismo o episodi di violenza domestica, è vissuta come imprevedibile, caotica e devastante.
Qui manca la giustificazione della “razionalità” attribuita agli Stati: il singolo armato rappresenta una rottura del patto sociale, un’infrazione della fiducia reciproca che è alla base della convivenza civile.
Le armi nelle mani degli individui evocano immagini di anarchia, paura e instabilità, mentre nelle mani degli Stati vengono romanticizzate o presentate come necessarie per mantenere l’ordine.
Le guerre e i crimini individuali non sono forse due facce della stessa medaglia?
Questa dicotomia evidenzia una dissonanza cognitiva nel sentire comune: si condanna il male dell’uso delle armi quando è “vicino”, ma lo si giustifica quando appare “lontano”, delegato a entità astratte come gli Stati. Tale atteggiamento deriva dalla percezione di controllo: le azioni statali intese come gestibili attraverso processi democratici e diplomatici, mentre la violenza individuale è imprevedibile e immediata.
Ma è giusto mantenere questa riserva senza mettere in discussione il potere delle armi, indipendentemente da chi le utilizza? Le guerre e i crimini individuali non sono forse due facce della stessa medaglia, riflesso di una società che ancora non ha trovato vie sostenibili per gestire il conflitto? Riconoscere questa contraddizione potrebbe essere il primo passo verso una riflessione più profonda su come trasformare la cultura del potere e della violenza in una cultura di pace e dialogo.
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