Quello dei semi di cannabis è un mondo caratterizzato da numerose sfaccettature. Una delle più importanti riguarda i semi femminizzati
Quello dei semi di cannabis è un mondo caratterizzato da numerose sfaccettature. Una delle più importanti riguarda i semi femminizzati. Come è noto a chiunque abbia una minima dimestichezza con questo mondo, il loro utilizzo è preferito da sempre rispetto al ricorso ai semi maschili da parte dei coltivatori. Il motivo? Sono in grado di produrre le cime.
Vediamo, nelle prossime righe, cinque cose che bisogna assolutamente sapere quando li si chiama in causa.
I semi femminizzati, ossia quelli che nel 99% circa dei casi portano alla nascita di piante di sesso femminile, sono arrivati sul mercato alla fine degli anni ‘90. Ciò significa che il loro utilizzo è relativamente recente e che ha semplificato il lavoro di milioni di coltivatori che, ai tempi, avevano alle spalle decenni di esperienza.
Prima del loro arrivo, il gold standard vedeva in primo piano l’utilizzo dei semi regolari. Questi ultimi, essendo frutto di un incrocio tra una pianta maschio e una pianta femmina, garantiscono il 50% di possibilità di ottenere un sesso piuttosto che l’altro. In alcuni frangenti, dalla loro coltivazione possono nascere anche piante intersessuali.
Quando si parla dei semi femminizzati, non bisogna cadere nell’errore di pensare che siano tutti fotoperiodici. Per amor di precisione, infatti, è il caso di rammentare l’esistenza di semi femminizzati autofiorenti. La loro caratteristica principale è la capacità di crescere senza essere vincolati ai cicli di luce, il che è un grande vantaggio sia quando si è alle prime armi, sia quando si ha poco budget da destinare all’acquisto di attrezzature di illuminazione.
Chi si approccia da zero alla coltivazione della cannabis, si chiede spesso se sia o meno possibile coltivare diverse varietà di semi femminizzati nella medesima grow room. La risposta è affermativa. Doveroso, però, è sottolineare l’importanza di fare questo passo una volta messa nel bagaglio un po’ di esperienza. Il motivo è semplice da capire: avere a che fare con tante varietà di semi di cannabis femminizzati significa, per forza di cose, trovarsi a gestire svariate piante, ognuna con le sue esigenze relative alle sostanze nutritive necessarie alla crescita.
Quando si parla dei primi passi nella coltivazione della cannabis, è naturale chiamare in causa un dilemma molto diffuso. Quale di preciso? La scelta tra una partenza utilizzando i semi piuttosto che i cloni. Quando si chiamano in causa questi ultimi, si inquadrano delle talee prelevate da piante madri nel corso della loro fase vegetativa.
Tra i loro vantaggi rientra la possibilità di risparmiare tempo. Da non dimenticare è anche l’assenza di sorprese: essendo la talea perfetta copia genetica della pianta madre dalla quale è stata ottenuta, si parte già con la conoscenza di tutti i dettagli post semina, dalle dimensioni della pianta fino alla produttività generale del raccolto.
Attenzione, però: come in tutti i casi, anche in questo c’è un rovescio della medaglia di portata non indifferente, ossia il rischio di avere a che fare con attacchi da parte dei parassiti. L’ostacolo si bypassa facilmente ricorrendo ai semi femminizzati, che possono essere considerati una valida alternativa ai cloni per approcciarsi alla coltivazione della cannabis.
Concludiamo rammentando il fatto che, quando si parla dei semi femminizzati, si inquadra, oggi come oggi, la possibilità di accedere a un’ampia gamma di varietà. Per certi versi, i numeri in merito sono molto più alti rispetto a quelli dei semi regolari.
Un altro aspetto da sottolineare riguarda la qualità. Grazie alla ricerca scientifica, si può infatti apprezzare un equilibrio perfetto tra THC e CBD, nonché delle infiorescenze estremamente ricche dal punto di vista aromatico.
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