Una prima puntata sullo sport durante il ventennio fascista, presentando il primo campione mondiale italiano di pugilato: Primo Carnera.
È risaputo che durante il regime fascista la pratica sportiva ebbe un ruolo importante. Si adottò lo sport come propaganda politica e rappresentazione della potenza nazionale. Infatti furono istituite molte discipline e rafforzate quelle esistenti, attraverso gare ed esibizioni in pubblico. Tiro a segno, utile per l’addestramento alle armi dei giovani. Uno di questi era il canottaggio che «squadra il petto, fa le braccia vigorose leve in ogni occasione pronte ad agire, allarga il respiro», mentre il motorismo «tempra il carattere e diffonde il progresso tecnico: è uno sport di coraggio in cui spesso chi guida deve prendere una decisione di vita o di morte». Non mancarono sport come l’alpinismo, la scherma, l’atletica leggera usata anche come preparazione militare e la ginnastica, forse quella che più impersonava le idee del regime, in quanto era considerata come educazione e miglioramento fisico della razza, il tiro a segno come addestramento dei giovani alle armi o al combattimento attraverso il gioco del rugby.
Uno degli sport più seguiti era il pugilato dove Primo Carnera, l’uomo che demoliva gli avversari (qualcuno ci rimase pure sotto i suoi micidiali pugni), un omaccione di 120 kg e
Carnera, il più forte pugile italiano del Novecento, secondo Nino Benvenuti (un altro che di boxe se la intendeva alla grande), è stato il primo pugile italiano a conquistare un titolo mondiale dei pesi massimi, un evento di assoluto valore sportivo visto che noi italiani siamo più portati per giochi di squadra, come il calcio per esempio. Fu strappato al mestiere di falegname dalle insistenze dello zio durante l’ospitalità nella sua casa francese. Massacrava gli avversari, si è detto all’inizio, come nel suo primo incontro da dilettante. Una boxe drammatica, la sua, tragica per la potenza inaudita che metteva nei suoi pugni. Ma il dramma maggiore si consumò nell’incontro del 10 febbraio 1933 dove il suo avversario, Ernie Schaaf, nato in Germania e naturalizzato statunitense, morì dopo il match. L’incontro si svolse nella culla della boxe mondiale, al Madison Square Garden, ed era validi per la
Il pugile più forte del mondo cadde in una disperazione e in una sofferenza che gli solcarono il viso in volto. Voleva evadere, essere nel suo paesino tra la sua gente umile e contadina, forse aveva anche pensato di abbandonare la boxe, ma stava lì, sul ring, mentre fissava quel corpo esanime del suo avversario tramortito sul tappeto.
Tempo dopo, uno dei cantore della boxe, il giornalista Alfredo Pigna, nel suo libro I re del ring, tornò su quella tragedia descrivendo la scena: «Ernie Schaaf stava morendo a pochi metri da lui e la gente pensava che fosse tutta una finzione. Ad un tratto la porta della sala si aprì e apparve il medico. Chiuse la porta dietro di sé, si avvicinò a Carnera e gli mise una mano sulla spalla. – È morto ! ? disse. Carnera fissò il medico con uno sguardo allucinato. – Sono un assassino ! – disse piano, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Il medico scosse la testa . – Non tu, ? disse letteralmente. – Io spero che venga concessa l’autopsia. In questo caso tutto il mondo avrà la prova che non sei stato tu l’assassino di Ernie Schaaf ma coloro che hanno permesso che il combattimento si effettuasse».
Dopo la morte di Ernie, Carnera fu vessato di insulti e scorrettezze. Qualche giornale avanzò anche una probabile combine con l’avversario: i soliti avvoltoi! Comunque, dopo la morte di Schaaf gli venne impedito di combattere per il titolo mondiale la finale contro il campione del mondo Jack Sharkey, ipotizzando di creare una categoria di super massimi. Carnera incontrò Sharkey il 26 giugno 1933 a New York, vincendo per k.o. in sei riprese: Carnera divenne il nuovo campione del mondo dei pesi massimi.
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