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Teatrum Botanicum

Manca poco all’inaugurazione di Teatrum Botanicum, terza edizione del festival dedicato ad artisti e curatori emergenti la cui indagine si colloca nello spazio interstiziale tra pratiche e riflessioni artistiche ed ecologiche proprie del centro d’arte contemporanea. Il programma del festival, orientato alle logiche della performance, si svolgerà nel corso delle giornate di venerdì e sabato, per poi concludersi domenica con il workshop condotto da Enrico Malatesta. 

Nelle settimane antecedenti l’opening di Teatrum Botanicum, abbiamo proposto un piccolo gioco agli artisti, musicisti e teorici coinvolti. Una richiesta avanzata nel flusso pressochè infinito di email – il brodo primordiale di ogni mostra o evento. Potreste scattare una fotografia ad una pianta vicino a voi? Una pianta domestica, o nel cortile, una pianta che vi colpisca. 

Rimanere affascinati da una pianta non è un fatto così scontato; o almeno è quanto dimostrato dalla teoria della plant blindness, termine coniato nel 1998 dagli studiosi di botanica James Wandersee ed Elisabeth Schussler al fine di indicare l’incapacità di notare la presenza di piante nel proprio ambiente e, di conseguenza, riconoscerne l’importanza nell’economia della biosfera e delle vicende umane. Si tratta di una dinamica quantomai paradossale, dato che le piante costituiscono la base della maggior parte degli habitat animali. Nondimeno, tendenzialmente sono proprio le figure zoomorfe a rubare la scena al mondo vegetale, sia a livello percettivo, sia sul piano culturale: è più semplice processare la nozione dell’estinzione dei panda, che ricordarci di connetterla alla scarsità del bamboo!

Non tutte le piante sono uguali e non tutte risultano ugualmente invisibili: ad esempio, le variazioni nella loro surface texture (eccezionalmente ricca e complessa) costituiscono un fattore fortemente discriminante, così come le fasi del ciclo vitale. “Prima che le azalee del profondo Sud fioriscano, vengono percepite come arbusti pressochè anonimi” scrivono James H. Wandersee ed Elisabeth E. Schussler “quando si coprono di boccioli rossi, rosa e bianchi, nessuno può ignorarle”. Digitate “azalea” in un motore di ricerca online e vedrete formarsi una griglia di immagini floreali. L’immagine che, istintivamente, assoceremmo al concetto di “azalea”. Lo schema dell’azalea.

La teoria di Barlett, formulata dallo psicologo britannico negli anni ’30, sostiene che tutti gli esseri umani possiedono regole o script categorici che utilizzano per interpretare il mondo. Le nuove informazioni vengono processate in modo da non entrare in conflitto con queste regole, il cui insieme forma lo schema, una cornice fatta di parametri individuali quanto collettivi, soggetta all’esposizione a questo o quel contesto specifico. Quando le informazioni che percepiamo contraddicono i parametri dello schema, queste potrebbero non essere comprese.

Cosa succede nel nostro cervello, di fronte ad un’azalea non ancora fiorita? È più che probabile che questa diventi un indistinto wallpaper verde, senza bisogno di turbare il nostro schema-azalea. Spostiamoci verso un altro contesto specifico: cosa succede nel nostro cervello, di fronte ad un’opera d’arte che non incontra il nostro schema-opera d’arte? O il nostro schema-mostra. O il nostro schema-concerto. O il nostro schema-performance. Come recepiremo, memorizzeremo e processeremo le informazioni inedite? Barlett individua tre possibili reazioni: accreditation, tuning e restructuring.

Laddove la prima reazione non prevede alcuna modifica allo schema pre-esistente e l’ultima designa il processo di creazione di un nuovo schema, tuning indica il momento in cui realizziamo che il nostro schema è sostanzialmente inadeguato alle nuove informazioni. Questo ci spinge a prendere coscienza della concretezza dello schema ed innesca un processo di trasformazione dello stesso. È interessante vedere come Barlett attinga l’espressione tuning all’ambito del sensibile e, nella fattispecie, del suono: un discreto endorsment nei confronti della pervasività dell’esperienza estetica.

In inglese c’è una netta differenza tra il sostantivo accordo, ovvero chord e il verbo accordaresintonizzareto tune. E Barlett sceglie proprio il termine tuning, to tune; un’azione, come a suggerire la necessità di una certa intraprendenza nel mettere in discussione gli assiomi di uno schema. E questo è il gioco che la terza edizione di Teatrum Botanicum si propone di innescare: chiedere allo spettatore, al partecipante, di attraversare l’ambiente innescando una dinamica di tuning rispetto al PAV, un ecosistema naturale e culturale che, in linea alla nozione di terzo paesaggio, esubera entrambi gli schemi.

Parimenti, nel corso delle due giornate del festival, si giocherà a stare in un territorio liminale tra la dimensione espositiva e quella performativa, a creare fratture tra l’attraversamento dello spazio tipico di una mostra e la calendarizzazione di interventi time-based, in un gioco di rimandi e slittamenti dinamici tra tempi e luoghi, tra un intervento e l’altro. Le proposte degli artisti invitati verranno messe in costante relazione, ora tramite piccole stratificazioni, ora tramite meccanismi che ricordano quello della staffetta.

Le opere giocheranno a fingersi allestimenti e scenografie, alcuni performer s’improvviseranno allestitori, i dispositivi moltiplicheranno le loro funzioni. La curatela esplode, così come le declinazioni del concetto di ambiente che sono al centro dell’iniziativa Teatrum Botanicum. Si apre il sipario – che non è verde ma rosa! -, si collegano i jack, si condividono i palchi, i muri scorrono, i cavi audio performano, la teoria si fa ludica. Gli allestimenti raccontano storie, la scrittura si rende visibile, si coniano neologismi, un film si trasforma in un concerto en plein air, suonano le macchine, suonano i sistemi, suonano le piante.

Serena Bonvisio

Giornalista pubblicista, ha al suo attivo collaborazioni con diverse testate locali e nazionali, nonché esperienza di radio e ufficio stampa. Il web è come il primo amore... non si scorda mai.

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Serena Bonvisio

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