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Un contributo agli studi sull’alta quota

Una nuova ricerca di Ibfm-Cnr, Università di Milano, ASST Santi Paolo e Carlo di Milano ed Agenzia Spaziale Europea (ESA) – pubblicata su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature – conferma l’impossibilità per l’uomo di adattarsi al clima in alta quota. Lo studio è stato condotto in Antartide, presso la base permanente italo-francese Concordia – situata sull’altopiano di Dome – che durante il periodo invernale può ospitare fino a sedici persone in condizioni confortevoli.

Ospiti della base Concordia, le tredici persone coinvolte nello studio per dieci mesi invernali tra il 2014 e il 2015, sono stati sottoposti a una condizione di ipossia (mancanza di ossigeno) – dovuta all’altitudine e alla ridotta densità dell’aria – paragonabile a quella che si verifica a 3800 m nel resto della Terra. La permanenza a tale quota induce cambiamenti fisiopatologici che, però, nella base Concordia possono essere analizzati in assenza di quei fattori di disturbo che si verificano nelle zone montuose della Terra come freddo, repentini cambi di quota, sforzi fisici, alimentazione irregolare e stress psicofisico.

Come previsto dal team di ricerca, nelle prime settimane di esposizione all’ipossia nei 13 soggetti coinvolti si è notato un aumento della capacità del sangue di trasportare ossigeno e un aumento del pH ematico (alcalosi), modificazioni utili per preservare la funzionalità dei tessuti.

Il dato interessante, però, è che tali cambiamenti non si sono risolti nel tempo, ma le persone hanno continuato a mostrare un’elevata presenza di globuli rossi e alcalosi anche dopo 10 mesi di permanenza alla base Concordia, dato che dimostra l’impossibilità di chi soggiorna per periodi prolungati ad alte altitudini di adattarsi, esponendosi inoltre a fattori potenzialmente pericolosi per l’apparato cardiovascolare (dovuti all’aumentata viscosità del sangue) e per la funzionalità renale e cerebrale (conseguenti all’alcalosi).

I risultati di questo studio – commentano  Mauro Marzorati e Simone Porcelli, ricercatori presso l’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare – sono di interesse non solo per coloro che per motivi professionali, sportivi o ricreativi si espongono alle alte quote, ma anche per i pazienti affetti da malattie polmonari ed ematologiche che impediscono la normale ossigenazione del sangue. Questi dati, inoltre, saranno utili per la pianificazione dei futuri viaggi spaziali, dove gli astronauti saranno esposti a una ridotta pressione di ossigeno all’interno delle navicelle o delle basi extraterrestri“.

Redazione CinqueColonne

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