Finale di stagione per AstraDoc la rassegna organizzata da Arci Movie Napoli, Parallelo 41 Produzioni, Università degli Studi di Napoli Federico II e Coinor con un’altra serata dedicata alle produzioni napoletane con due anteprime esclusive. Al Cinema Astra si conclude la stagione con un doppio appuntamento: sarà proiettato “Non può essere sempre estate” di Margherita Panizon e Sabrina Iannucci premiato ad “Extra Doc Festival” di Roma e “Vita di Marzouk” di Ernesto Pagano vincitore del Premio “Il razzismo è una brutta storia” al Festival del Cinema Africano, d’Asia e di America Latina di Milano.
“Non può essere sempre estate” è un documentario sviluppato nel progetto FilmaP – Atelier di cinema del reale di Ponticelli e prodotto da Arci Movie e Parallelo 41 produzioni e in collaborazione con la Fondazione Eduardo De Filippo.Il film racconta l’adolescenza attraverso questa esperienza di attività teatrale di un gruppo di ragazzi della periferia napoletana. Chiara Stella, Domenico e Alessio hanno 15 anni, e tutti i lunedì vanno a fare le prove di teatro al Centro Asterix, uno spazio ricreativo con dentro un piccolo teatro che si trova a San Giovanni a Teduccio, quartiere della periferia Est di Napoli. I tre vengono da lì vicino: Ponticelli, Barra e la stessa San Giovanni. Devono prepararsi per mettere in scena Vincenzo De Pretore, una commedia di Eduardo De Filippo. Nicola, il regista dello spettacolo, ha proposto loro questo testo per un motivo: rispecchia le condizioni di vita di alcuni ragazzi e rappresenta delle possibili realtà con le quali si confrontano quotidianamente.
“Questo film – dicono le registe – nasce dall’esigenza di raccontare un momento specifico della vita di ogni essere umano: l’adolescenza, in questo caso in un contesto limite come quello della periferia di Napoli, cercando però di dare a questa fase uno sguardo positivo, volto al futuro, alla necessità e al diritto di essere felici. Quello a cui assistiamo sono le vite dei ragazzi, i loro dubbi, le loro gioie e le loro insicurezze. Il film ricerca l’ansia e la premura di una generazione cresciuta in un altro modo e in un altro mondo: quella degli educatori, nello specifico di Nicola, pronto a rincorrere e a ricercare un modo per andare incontro ai ragazzi che si danno per persi, o per trovare il metodo adeguato per capirli e farli crescere. I temi legati alle dinamiche adolescenziali sono esplorati attraverso gli scambi e le relazioni tra i ragazzi durante le improvvisazioni, tra una prova e l’altra e fuori dal teatro”.
“Vita di Marzouk” è il ritratto intimo di un tentativo d’integrazione che troverà nell’amore l’unica risposta possibile. Marzouk ha due figli di cinque e sette anni: Jamal e Alya, l’uno biondo, l’altra bruna. Entrambi nati e cresciuti a Napoli, lui gli parla ostinatamente in arabo nell’intento di far crescere in loro la “metà tunisina” delle loro origini. La sua compagna, Elvira, lo ha trascinato in terapia di coppia perché non riesce a comunicare con lui: si sente sola, sta con un “uomo assente” e lontano dai doveri di un padre occidentale moderno. Marzouk invece pensa che il vero problema stia nel fatto che lui è un immigrato, di religione musulmana e per giunta musicista e squattrinato. “Nelle mie mani ormai c’è il ghiaccio”, spiega al terapeuta, rompendo il suo usuale silenzio. Quelle mani che oggi faticano a suonare ritrovano, nelle vecchie lettere in cui il padre gli chiedeva di spedire i soldi a casa, il dramma collettivo dell’emigrazione dal Nord Africa in Europa. è nelle pieghe di questa crisi che affiora il rapporto profondo e intenso tra Marzouk e i suoi figli, cresciuti nel ventre della media borghesia occidentale e catapultati d’un tratto nella campagna tunisina, dove il padre li porta per la prima volta a conoscere il bilad. A Tebourba, trenta chilometri da Tunisi, Alya e Jamal scoprono un mondo minimale, dove ogni cosa ha un posto eterno.
“L’approccio visivo del film – dice il regista – è quello della pura osservazione. La quotidianità viene catturata stando dentro la scena e raccogliendo i punti di luce e d’ombra del rapporto tra Marzouk e i suoi figli, tra Marzouk ed Elvira. La loro crisi coniugale viene raccontata accedendo “al confessionale” dello psicologo di coppia, un luogo a cui si affida forse per la prima volta il racconto dei problemi d’integrazione tra un nordafricano e un’europea, sempre che non si leggano quelle sedute sul loro piano più universale: e cioè il racconto dei problemi d’integrazione tra un uomo e una donna, o in generale tra gli uomini”.
Finale di stagione per AstraDoc la rassegna organizzata da Arci Movie Napoli, Parallelo 41 Produzioni, Università degli Studi di Napoli Federico II e Coinor con un’altra serata dedicata alle produzioni napoletane con due anteprime esclusive. Venerdì 18 maggio alle ore 21.00 al Cinema Astra si conclude la stagione con un doppio appuntamento: alle 19.30 sarà proiettato “Non può essere sempre estate” di Margherita Panizon e Sabrina Iannucci premiato ad “Extra Doc Festival” di Roma e alla 21.00 “Vita di Marzouk” di Ernesto Pagano vincitore del Premio “Il razzismo è una brutta storia” al Festival del Cinema Africano, d’Asia e di America Latina di Milano.
“Non può essere sempre estate” è un documentario sviluppato nel progetto FilmaP – Atelier di cinema del reale di Ponticelli e prodotto da Arci Movie e Parallelo 41 produzioni e in collaborazione con la Fondazione Eduardo De Filippo.Il film racconta l’adolescenza attraverso questa esperienza di attività teatrale di un gruppo di ragazzi della periferia napoletana. Chiara Stella, Domenico e Alessio hanno 15 anni, e tutti i lunedì vanno a fare le prove di teatro al Centro Asterix, uno spazio ricreativo con dentro un piccolo teatro che si trova a San Giovanni a Teduccio, quartiere della periferia Est di Napoli. I tre vengono da lì vicino: Ponticelli, Barra e la stessa San Giovanni. Devono prepararsi per mettere in scena Vincenzo De Pretore, una commedia di Eduardo De Filippo. Nicola, il regista dello spettacolo, ha proposto loro questo testo per un motivo: rispecchia le condizioni di vita di alcuni ragazzi e rappresenta delle possibili realtà con le quali si confrontano quotidianamente.
Questo film – dicono le registe – nasce dall’esigenza di raccontare un momento specifico della vita di ogni essere umano: l’adolescenza, in questo caso in un contesto limite come quello della periferia di Napoli, cercando però di dare a questa fase uno sguardo positivo, volto al futuro, alla necessità e al diritto di essere felici. Quello a cui assistiamo sono le vite dei ragazzi, i loro dubbi, le loro gioie e le loro insicurezze. Il film ricerca l’ansia e la premura di una generazione cresciuta in un altro modo e in un altro mondo: quella degli educatori, nello specifico di Nicola, pronto a rincorrere e a ricercare un modo per andare incontro ai ragazzi che si danno per persi, o per trovare il metodo adeguato per capirli e farli crescere. I temi legati alle dinamiche adolescenziali sono esplorati attraverso gli scambi e le relazioni tra i ragazzi durante le improvvisazioni, tra una prova e l’altra e fuori dal teatro.
“Vita di Marzouk” è il ritratto intimo di un tentativo d’integrazione che troverà nell’amore l’unica risposta possibile. Marzouk ha due figli di cinque e sette anni: Jamal e Alya, l’uno biondo, l’altra bruna. Entrambi nati e cresciuti a Napoli, lui gli parla ostinatamente in arabo nell’intento di far crescere in loro la “metà tunisina” delle loro origini. La sua compagna, Elvira, lo ha trascinato in terapia di coppia perché non riesce a comunicare con lui: si sente sola, sta con un “uomo assente” e lontano dai doveri di un padre occidentale moderno. Marzouk invece pensa che il vero problema stia nel fatto che lui è un immigrato, di religione musulmana e per giunta musicista e squattrinato. “Nelle mie mani ormai c’è il ghiaccio”, spiega al terapeuta, rompendo il suo usuale silenzio. Quelle mani che oggi faticano a suonare ritrovano, nelle vecchie lettere in cui il padre gli chiedeva di spedire i soldi a casa, il dramma collettivo dell’emigrazione dal Nord Africa in Europa. è nelle pieghe di questa crisi che affiora il rapporto profondo e intenso tra Marzouk e i suoi figli, cresciuti nel ventre della media borghesia occidentale e catapultati d’un tratto nella campagna tunisina, dove il padre li porta per la prima volta a conoscere il bilad. A Tebourba, trenta chilometri da Tunisi, Alya e Jamal scoprono un mondo minimale, dove ogni cosa ha un posto eterno.
“L’approccio visivo del film – dice il regista – è quello della pura osservazione. La quotidianità viene catturata stando dentro la scena e raccogliendo i punti di luce e d’ombra del rapporto tra Marzouk e i suoi figli, tra Marzouk ed Elvira. La loro crisi coniugale viene raccontata accedendo “al confessionale” dello psicologo di coppia, un luogo a cui si affida forse per la prima volta il racconto dei problemi d’integrazione tra un nordafricano e un’europea, sempre che non si leggano quelle sedute sul loro piano più universale: e cioè il racconto dei problemi d’integrazione tra un uomo e una donna, o in generale tra gli uomini”.