Lontano dalle mode, ma vicino all’anima. Oggi conosceremo Gnut, cantante che incarna un’idea di arte sobria e profonda, capace di parlare a chi cerca verità e bellezza nelle piccole cose.
Chi è Gnut?
Gnut, pseudonimo di Claudio Domestico, è un cantautore napoletano nato nel 1981. Autodidatta, inizia a suonare la chitarra a 14 anni e nel 2003 dà vita al progetto che porta il suo nome d’arte. La sua musica è una fusione di folk, blues e tradizione cantautorale napoletana, con testi poetici e arrangiamenti essenziali che mettono al centro voce e chitarra.
Dopo il debutto con DiVento (2008), Gnut pubblica Il rumore della luce (2011), prodotto da Piers Faccini, e successivamente Prenditi quello che meriti (2014). Nel 2018 esce l’EP Hear My Voice, che apre a sonorità più internazionali, mentre il suo album più maturo, Nun te ne fa’ (2022), nasce da una lunga collaborazione con Faccini e riflette sulla perdita, il tempo e la rinascita.
Quattro chiacchere con…
La tua musica porta dentro l’anima della canzone napoletana, ma anche influenze folk e internazionali. Come convivono queste radici e queste aperture nel tuo percorso artistico?
Storicamente la musica napoletana è sempre stata molto predisposta alle contaminazioni. Forse perchè Napoli si trova al centro del mediterraneo ed ha subito svariate dominazioni. Il groove dei paesi nord africani, le atmosfere arabe nelle melodie, lo swing, il blues, il dub. Sono arrivato tardi a scrivere in napoletano dopo essermi appassionato a cose apparentemente molto distanti come il folk inglese, il cantautorato alternative americano, la musica africana del Mali. Diciamo che ad un certo punto del mio percorso tutto ha trovato un senso in modo naturale senza forzature.
Nei tuoi testi c’è sempre una forte componente poetica. Da dove nasce il bisogno di raccontare in questo modo e quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
Sui testi sono molto istintivo e spontaneo. Non riesco a ragionarci troppo. La forma canzone ti costringe ad essere estremamente sintetico, forse è questo che lascia fiorire elementi poetici tra i versi.
Mi ispiro alla vita, alla morte, alla felicità e al dolore.
Hai lavorato con poeti, musicisti e produttori diversi. C’è una collaborazione che ha cambiato il tuo modo di fare musica?
Tutte le collaborazioni che ho avuto da quando ho iniziato a suonare sono state fonte di grande ispirazione e crescita per me.
Sicuramente sento di avere un feeling speciale con Piers Faccini.
Ancora oggi il confronto con lui mi arricchisce ogni volta tantissimo.
Spesso parli di rinnovare la lingua napoletana in musica. Che sfide e opportunità incontri quando scrivi in dialetto?
La sfida e l’opportunità di cimentarsi con una lingua dalla grande musicalità e dalla tradizione artistica infinita è qualcosa di molto stimolante. È anche una grande responsabilità. Ma alla mia età le responsabilità ormai non mi spaventano più.
Come cambia la tua musica dal momento in cui nasce in casa o in studio a quando la porti davanti a un pubblico dal vivo
Cambia semplicemente abito e forma ma la sostanza resta la stessa. Cerco di conservare sempre la sincerità e l’emozione che mi spingono a fare musica in tutte le fasi della produzione. Per me scrivere canzoni è qualcosa di intimo, molto intimo. Questa intimità la proteggo e la porto con me in studio e sul palco.
Stai già pensando al prossimo progetto? Quali direzioni musicali o temi vorresti esplorare nei tuoi lavori futuri?
Il prossimo sarà un disco diverso da tutti gli altri. Il tema predominante nei testi sarà quello della spiritualità. Musicalmente sarà influenzato dai mantra, dalla musica africana, da una fusione delle ritmiche tradizionale del mediterraneo e tutto il resto delle cose che mi frullano per la testa
























