Categorie: Caleidoscopio

Interviste impossibili: oggi ci è venuto a trovare il fantasma di George Brassens

Una intervista impossibile al fantasma del chansonnier francese George Brassens, con risposte originali, cioè tratte dalle dichiarazioni del cantautore.

Oggi ci è venuto a trovare il fantasma di George Brassens. Nato a Sète (Francia) nel 1921 e morto nel 1981 a Saint-Gély-du-Fesc. Cantautore e poeta francese, dissacrante e ironico, antidivo, anticonvenzionale, di carattere scontroso e alquanto difficile, è considerato a livello mondiale come uno dei più grandi maestri della canzone d’autore e il massimo cantautore francese del ’900 che ha venduto 50 milioni di album. È tra i banchi di scuola, grazie al suo insegnate di francese, Alphonse Bonnafè, un anticonformista, che Brassens si appassiona alla poesia, mentre ascoltando le canzoni di Charles Trenet (che considera il suo vero mastro), amerà la musica.  Dopo aver scritto due volumi di poesie Des coups dépées dans l’eau / Buchi nell’acqua e A la venvole / Alla leggera (basate su temi quali la giustizia, la religione, la morale, narrando storie di ladruncoli, prostitute, gente ai margini della società) e un romanzo grottesco, La tour des miracles / La torre dei miracoli, dopo aver conosciuto la galera e aderito alla Federazione Anarchica, si dedica alle canzoni incoraggiato da Jacques Grello.

Oggi la politica ha perso il suo peso sociale, le banche e le multinazionali la fanno da padrone, e aggiungiamoci pure l’indifferenza e la solitudine, la scarsa cultura e un odio tra i popoli, qual è la cosa più difficile da affrontare nella vita?

La cosa più difficile nella vita? Essere se stessi. E avere carattere a sufficienza per restarlo.

Tra i tanti cantautori che si sono ispirati alla sua musica, alla sua politica e alla sua poesia, in Italia c’è stato Fabrizio De André e Nanni Svampa. Ricordo di De André la Marcia nuziale, pubblicata nel 1967 nell’album “Volume I”, traduzione, quasi alla lettera, della sua La marche nuptiale inserita nell’album “Oncle Archibald”. Una traduzione quasi letterale (Matrimoni per amore, matrimoni per forza / ne ho visti di ogni tipo, di gente d’ogni sorta / di poveri straccioni e di grandi signori / di pretesi notai e di falsi professori / ma pure se vivrò fino alla fine del tempo / io sempre serberò il ricordo contento / delle povere nozze di mio padre e mia madre / decisi a regolare il loro amore sull’altare…), versi alessandrini dove traspare la commedia umana in favore degli emarginati, l’ostracismo ai soprusi, alle assurde leggi borghesi, e soprattutto l’anarchismo che vi accomuna.

Sono un uomo per il quale “libertà” è una parola che dice tutto. È una delle poche cose che non riesco a sopportare nelle persone che incontro. Detesto ogni tipo di autoritarismo, di costruzione. È molto difficile che possa diventare amico di qualcuno che cerca d’imporre la sua volontà agli altri.

Il giovane Brassens è stato quello che si dice, un “birbantello” sopra le righe, collaborando anche con una rivista anarchica, «Libertaire». Come nasce il suo anarchismo?

Cosa vuole che le dica: il cuore a vent’anni si posa dove l’occhio si posa. Comunque ho scoperto in quegli ideali molte cose che avevo dentro e non sapevo come definire. Priorità assoluta alla libertà, un attaccamento viscerale alla libertà, una rabbia profonda quando si vedono uomini che vogliono imporre qualcosa ad altri uomini. Mi piace il pensiero solitario, detesto il gregge, ma questo non ha niente a che vedere con i necessari sforzi collettivi. Se ho bisogno di amici che mi aiutino a spostare una pietra, li chiamo, ci uniamo se dobbiamo trarre in salvo degli uomini sepolti in una maniera, per es. Ma rifiuto il gruppo o la setta irreggimentata e nessuno riuscirà a convincermi che si pensa meglio quando mille persone urlano tutte la stessa cosa. Quando ci si riunisce per pensare e dettare regole di comportamento, la setta non è lontana.  

Qual è stato il suo rapporto con le donne?

Come tutti gli uomini. Alti e bassi. Per conoscere una donna occorre una vita intera e novanta volte su cento le donne si annoiano mentre fanno l’amore. Allora meglio dedicarsi alla canzone.

E dell’amore?

L’amore diventa più bello quando ci si sbarazza del senso della proprietà.

Insieme a Jacques Brel, lei è considerato uno più grandi maestri della canzone d’autore. Ha messo in musica e interpretato alcune poesie di Louis Aragon, Paul Fort, Victor Hugo, Francis Jammes, Antoine Pol, Jean Richepin, Paul Verlaine, François Villone altri. Che differenza c’è tra la poesia e la canzone?

La poesia e la canzone sono la stessa cosa, ma non si può cantare carmi troppo alati; la canzone è per tutti: una poesia alla portata di tutte le borse.

Come si è avvicinato alla canzone?

In casa nostra cantavano tutti, mio padre, i miei nonni, mia madre, mia sorella e, di conseguenza, se penso a me bambino, mi sento cantare fin dall’età di quattro o cinque anni. Cantavo le canzoni che si usavano allora, soprattutto quelle che cantava mia sorella. Poi devi sapere che mia madre era di Napoli. Cantava mentre cucinava, mentre lavava, mentre stirava. Così, si cantava pure ’O sole mio insieme ad arie d’epoca o d’operetta. Si mescolava Si l’on ne s’était pas connus con Salut, demeure chaste et pureSanta Lucia con Fascination. Cantavamo continuamente senza farci troppe domande su quel che cantavamo. E poiché ero il più giovane, andavo in giro a imparare altre canzoni, perché anche i miei amici avevano il grammofono.

Cosa prova quando suona o canta?

Una sorta di vibrazione interiore, qualcosa di intenso che non riesco a spiegarti ora; un piacere che sembra appartenere al campo della sensualità. La musica è la sola cosa in terra che mi dà questo piacere particolare: non provo con altro quello che provo con la musica. La musica mi dà un brivido particolare.

Quando ascolta una canzone non sua, prova gli stessi brividi?

Se la canzone è buona, sì. Attribuisco più importanza alla musica che alle parole nelle canzoni degli altri. Se voglio anche delle parole che funzionino, mi leggo Verlaine, Baudelaire. Ovviamente per quel che riguarda le mie canzoni, è un altro discorso, sono un autore e cerco di scrivere dei testi che siano dignitosi. Nella mia presunzione, ho pensato anche di essere un poeta. E mi sono messo a studiare la versificazione. Imparavo l’arte di far versi non per le mie canzoni ma per un’opera poetica. Anche se mi sono detto che non sarei stato mai un grande poeta, un Rimbaud, un Mallarmé, un Villon. E così sono riuscito anche a pubblicare qualche volume di poesie. Però, se si afferma che la mia vera musica sono le parole, è sbagliato! Nella mia musica c’è qualcosa di intimamente legato alle parole e questo le rende affascinanti.

Come definirebbe la società odierna?

Viviamo in epoca di slogan dove nessuno dovrebbe avere diritti su nessuno. L’unica cosa che è cresciuta, più velocemente della cultura, è l’informazione. In questo senso la propaganda ha più chance di prima per imbambolare gli uomini.

Qual è, secondo lei, la cosa più difficile d’affrontare nella vita?

La cosa più difficile nella vita? Essere se stessi. E avere carattere a sufficienza per restarlo. 

Davvero difficile. Essere se stessi in questa società, con questa politica, schiavizzati dal potere dal denaro, la vedo dura, ma dura seriamente!

Solo grazie alla poesia troviamo la quadratura del cerchio. La poesia è la sola cosa che ci resta della civilizzazione. La poesia è anche passione. Se si fanno le cose senza passione è meglio non farle. 

È sicuro di questa sua affermazione? Mi pare che la poesia oggi non goda di buona salute.

La sola cosa di cui sono sicuro è la mia ignoranza e la certezza della morte. L’unica certezza! La morte sistema tutti! È davanti alle loro bare che constatiamo la mediocrità dei viventi.  

È pur vero che ci lasciato una canzone che è tutto un programma, La ballade des cimetières (La ballata dei cimiteri), ma non credo che la morte sia una soluzione, né la solitudine.

Però, a forza di vivere con sé stessi, si finisce quantomeno per sopportarsi. Poi, se la vogliamo dire tutta, non è la società che corrompe l’uomo, è l’uomo che corrompe la società.

Diceva Fabrizio De André di lei: «Mi intrigava il fatto che trattasse temi scabrosi, di grande rilevanza sociale, buttandoli via, cantandoli con una nonchalance da teatrante inglese». Forse perché le sue canzoni si sono sempre schierate contro le ingiustizie.  

Sì, però dal momento in cui un uomo cerca di denunciare le ingiustizie, non gli restano nemmeno ventiquattr’ore di vita. Tra l’altro ho sempre avuto una pessima reputazione: vedevo blu quel che era bianco. Sono talmente anarchico che attraverso sulle strisce pedonali per non aver a che fare con la gendarmeria. Meglio così: i fessi non hanno speranze. Non ne hanno bisogno. Per il fatto di essere fessi, tutto appare loro semplice

In conclusione: come si definisce? 

Mi autocensuro sempre. Ho la pretesa di non avere nessuna opinione, nessuna opinione definitiva su tutto. È così perché sono pretenzioso, orgoglioso e non voglio passare per uno stronzo. Se fossi più semplice, dato che sono relativamente ignorante, non di un’ intelligenza rara, ma neanche troppo stupido, sarei più felice perché direi qualsiasi cosa, ecco tutto.

Giorgio Moio

Poeta, nasce a Quarto (NA) nel 1959. Già redattore di «Altri Termini» e «Oltranza» (di quest'ultima è anche tra i fondatori), per le Edizioni Riccardi, già direttore editoriale, nel '98, anno in cui inizia a partecipare a mostre collettive di poesia visuale (una sessantina fino ad oggi) fonda e dirige la rivista «Risvolti». Dal 2017 dirige la rivista «Frequenze Poetiche» e dal 2021 cura la collana di poesia verbovisuale "Contrappunti", presso l'editore Bertoni. Ha organizzato eventi, partecipato a letture di poesia e ad una sessantina di mostre collettive di poesia visuale. Ha pubblicato una ventina di volumi di poesia, prosa e saggistica, di cui l'ultimo è Contrappunti variabili (Bertoni Editore, 2020 - poesia).

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