Categorie: Caleidoscopio

Interviste impossibili: oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Giorgio Manganelli

Un'intervista a Giorgio Manganelli, lo scrittore più irrequieto del secondo dopoguerra.

Oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Giorgio Manganelli, scrittore, traduttore, giornalista, critico letterario. Discutiamo della differenza tra poesia e prosa. Teorico tra i più coerenti della neoavanguardia, nasce a Milano nel 1922 e muore a Roma 1990, dove si era trasferito nel 1953 per insegnare inglese nelle scuole medie e lavorare per la RAI, soprattutto per la radio.

Suoi colleghi furono personalità di grande risalto culturale e intellettuale, del calibro di Umberto Eco, Italo Calvino ed altri, coi quali ideò programmi radio-televisivi, per es. Interviste impossibili, titolo preso in prestito impunemente da chi scrive per le sue interviste. Operava su diversi piani Manganelli, da un lato come scopritore di talenti, come una giovanissima Alda Merini, con la quale lo univa una breve relazione e la malattia mentale, dall’altro come attivista del “Gruppo 63”.

Importante ruolo ebbe anche nell’editoria in veste di consulente di grosse case editrici (Mondadori,  GarzantiFeltrinelli, EinaudiAdelphi) e negli organi si stampa («Epoca», «Il Corriere della Sera», Il Giorno», «Il Messaggero», «Il Mondo», «La Stampa», «L’espresso», «L’Europeo»).

La sua opera più importante è forse il saggio Hilarotragoedia (Feltrinelli, Milano, 1964; Adelphi, Milano, 1987), tra l’altro la sua prima opera, seguita da una ventina di opere di narrativa e di critica letteraria, di numerose traduzioni (T. S. Eliot, Appunti per una definizione della cultura, Bompiani, Milano, 1952; Cecil Sprigge, Benedetto Croce : l’uomo e il pensatore, Ricciardi, Napoli, 1956; Edgar Allan Poe, I racconti, 3 voll., Einaudi, Torino, 1983), d’interviste e da una quarantina di opere postume. Non si è fatto mancare davvero nulla Manganelli, scrivendo anche di critica d’arte sulla rivista «FMR» (articoli raccolti in Salons, Adelphi1987) e di teatro (in Tragedie da leggere, a cura di Luca Scarlini, Bompiani2008).

In Letteratura come menzogna del 1967, che raccoglie i suoi saggi critici, lei afferma che il compito della letteratura è quello di trasformare la realtà in menzogna, in scandalo e in mistificazione. Perché?

Perché ogni scrittura racchiude in sé un puro gioco di forme che per diventare contestazione deve rinascere come parodia sarcasmo, attraverso una prosa raffinata e funambolica.

Dunque, la sua scrittura è influenzata da avventure fantastiche alla Swift, autore da lei prediletto, ma io ci trovo una musicalità che rapisce tutta la sfera umana, anche una vena tetra, di morte, come se vivessimo l’ultimo giorno della nostra vita. Cosa ne pensa?

Da sempre l’ultimo giorno è dentro di noi. L’effimera nostra durata è tale da inserirsi in una vibrazione del terremoto conclusivo. I morti da tempo si muovono nelle tombe. Da tempo camminano tra noi. L’estate e l’inverno sono stagioni di tortura. Già l’universo è giudicato. Già è condannato. Già è perito. Noi siamo l’inferno dell’universo, noi siamo la sua morte. Noi, i suoi vermi, la sua distruzione, la sua fine. La malattia da sempre ha vinto. Noi sue piaghe da sempre lo consumiamo. Noi suo sangue da sempre ci disperdiamo.

Non la seguo. Crede che Dio permetterebbe tutto questo?

Dio non c’è. Puoi cavare le viscere a tua sorella, puoi limare il cranio d’una bambina fino a fare spiccinare il cervello, puoi cuocere il tuo migliore amico, cavare le unghie i denti gli occhi il fegato di tuo padre, puoi giacere – se ci riesci – con tutte le tue consanguinee e nemmeno la scriminatura si muoverà a quel lucido, correttissimo, urbanissimo niente che è Iddio.

Già. Dimenticavo che è un ostinato ateo e che gode a deridere il cattolicesimo.

Più che deridere, sono convinto che Dio è male informato dai suoi collaborazionisti: un giorno dovremo ammazzarli, come cani. Vuoi riconoscere i suoi collaborazionisti? Vestono come lui: di orbace; salutano romanamente, dicono «O Roma o Mosca», difendono lo spirito, l’anima, l’idea. I fascisti: gli scherani di Dio: i suoi simili. Dio è fascista. Dove c’è una gerarchia pratica che vuole essere gerarchia morale, dove il caporale conosce più verità del militare di truppa, c’è fascismo, c’è Dio.

Certo sono accuse pesanti.

Il nostro Signore del cancro e dei dementi ci avverte che non c’è natura, non c’è legge, non c’è ordine, se non là dove si è eretto un muro alla perfidia del sacro. Gli assassini continuano ad uccidere anche quando avvertono la presenza del sacro. D’altronde l’omicida e l’assassinato formano un sistema, e senza uno di essi, l’omicidio non esisterebbe; dunque se parlo di omicidio, è come se parlassi di coniùgio, di amplesso, di matrimonio.

A sentirla parlare pare che il mondo sia già un mondo perso.

Perché è un gigantesco tumore cresciuto nel cuore del nulla. Le faccio un esempio creativo, di fantasia. Vedo in un angolo una pila di vocali, quello che rimane di un empio trattato sulla decadenza degli angeli; non facesse così freddo, forse chiacchiererebbero tra di loro, ma stanotte si stringono l’una all’altra, preoccupate solo di farsi un poco di caldo. Ogni mattina trovano cataste di vocali morte, le scopano via con sacrilega sollecitudine.

Decisamente la sua scrittura cattura ed appassiona, anche se, frammentaria, depista un po’ il lettore.

Ci sono lettori che hanno il dono di saper leggere, altri no. Il lettore deve essere pervaso da un dono divino, in quanto la scrittura è un  dono degli dei. Nessuno sa perché alcuni riescono a scriverne e altri no, il digrignare di un universo vocale dentro un universo taciturno.

A questo punto ci domandiamo: ha un senso espressivo la letteratura in un universo taciturno?

Le letteratura ha sempre dato disperazione ai disperati, urli agli assordati, dando abbagli agli abbagliati e ai famelici, fame. La letteratura, ben lungi dall’esprimere la “totalità dell’uomo”, non è espressione, ma provocazione; non è quella splendida figura umana che vorrebbero i moralisti della cultura, ma è ambigua, innaturale, un poco mostruosa. Letteratura è un gesto non solo arbitrario, ma anche vizioso: è sempre un gesto di disubbidienza, peggio, un lazzo, una beffa; e insieme un gesto sacro, dunque antistorico, provocatorio.

Mi sa che lei è un ossimoro vivente (oddio, vivente proprio no) ma spiritoso, divertente, da ex paziente junghiano, un giocoliere, un disperato giocoliere, come la sua scrittura.

La scrittura è qualcosa di ben più temibile ed enigmatico di quel che pensano quanti si sforzano di mettere assieme il bello ed il buono in essa, coltivando una dolce e ritmica demenza. E si veda il bell’egualitarismo del procedimento, che pareggia miopi, presbiti, ipermetropi, daltonici ed astigmatici in una comune, edificante inettitudine a leggervi alcunché.

Deprimente! Un grande mentitore, agitatore di parole. Affabulazione ipermanieristica dove i fatti non hanno consistente nella realtà. D’accordo. Come si pone per superare il realismo, per superare i fatti “mendaci”?

Con l’arbitrario artificio, glorificazione di una menzogna suprema, evitando la trappola dei buoni sentimenti. La scrittura, la mia scrittura in particolare, non è né mite né generica, si elabora per diventare se stessa, ossessione di quella menzognera dilatazione di essere così sapientemente una scrittura tatuata su un cencio di nulla.

Una sconclusione, insomma!

No. Storie di possibilità impossibili (come ha scritto Angelo Guglielmi) tra ribaltamenti e dissacrazioni, tra il paradosso e la derisione, tra l’allegoria e la fantasmagoria, tra labirinti e il perdersi dentro.

Dunque, una scrittura del piacere?

E della sofferenza visionaria, una scrittura dell’essere e non delle cose né tantomeno della realtà che, infausta, non riesce a carpire il senso della contraddizione.

Lei ha affermato che la poesia non ci fa capire l’universo come la prosa. Eppure lei ha scritto anche poesie, pubblicate da Crocetti nel 2006! Per es.:

Scrivi, scrivi;

se soffri, adopera il tuo dolore:

prendilo in mano, toccalo,

maneggialo come un mattone,

un martello, un chiodo,

una corda, una lama;

un utensile, insomma.

Se sei pazzo, come certamente sei,

usa la tua pazzia: i fantasmi

che affollano la tua strada

usali come piume per farne materassi;

o come lenzuoli pregiati

per notti d’amore;

o come bandiere di sterminati

reggimenti di bersaglieri.

Nelle sue poesie l’io, tra ironico e disperato, è orientato lontano dalla “letteratura come menzogna” di cui ne ha fatto il suo cavallo di battaglia. Allora perché ha scritto poesie?

La ragione che ho scritto anche poesie è naturalmente la meno importante. Perciò non la prenderei neppure in considerazione. L’importante è che la poesia accetta la presenza della disperazione, anche quando è pessima poesia, e vuole lavorarci dentro. In realtà è dalla parte della disperazione. La morte parla in rima, in endecasillabi, in versi liberi. La follia ama le cantilene, e i ritornelli. Anche l’amore. E infatti la qualità più difficile dell’amore è che esso richiede l’accettazione, la collaborazione della morte. Se senti che la morte è assurda, inaccettabile come un ragionamento sbagliato, niente da fare. Non amerai mai. Tutto ciò non patisce altre leggi che quelle strettissime e necessarie della poesia.

Ci vuole dire che la poesia non serve al mondo né all’uomo per debellare i propri fantasmi? Io credo che la poesia sia indispensabile, come l’amore, il sole, l’aria. Forse perché sono un poeta.

Quando uno scrittore, già noto per singolari imprese di romanziere e drammaturgo, ci affronta con un fascio di poesie, quasi fosse agli acerbi inizi di una incerta carriera, lo accogliamo con assai misti sentimenti: una simpatia curiosa ma non generosa, ed anzi un poco ironica, per lo scrittore che osa esibirsi nella più ambiziosa e perigliosa delle imprese letterarie; cautela contigua alla diffidenza, giacché sa di soperchieria questo commerciar poesia sotto una insegna già altrimenti illustre; e anche una punta di deplorazione per il romanziere che, sospettiamo, mosso da una incauta pietas verso se medesimo, recupera i documenti di un estro da tempo estinto.

Per quanto capricciosa, estrosa, maliziosa, la prosa può dare la possibilità di affrontare la disperazione come disperazione, e come diversa da noi, e inconciliabile con noi. Essa riassume il suo carattere di ragionamento sbagliato, di sillogismo squinternato, di discorso deforme. Se della prosa non si pretende la brulicante seduzione delle metafore, se non le chiediamo che ci induca a muovere il nostro corpo in ascolto secondo il ritmo degli agonizzati, dovremo convenire che essa è in una condizione quasi ideale per lasciarci sperare che in essa di possa ritrovare una nuova arma contro il grande “sillogismo sbagliato” dell’universo.

Un estro da tempo estinto. Allude al poeta? Dia un valore alla prosa, a questo punto.

Quindi un poeta è un agonizzato?

Scrivere in versi è spesso un esercizio di vanità contro la disperazione: un modo signorile e distaccato per essere sciocchi. Tuttavia, finché c’è al mondo un bimbo che muore di fame, fare letteratura è immorale.

Affermazione pesante, direi.

Lo scrittore, come il poeta, sceglie in primo luogo di essere inutile. La vita è e deve essere un negativo dei sogni. E non credete quando vi dicono che lo scrittore deve adoperare una lingua che tutti devono capire. Non la deve capire nessuno! Figurarsi. Devono leggerla, rileggerla; sennò quale sarebbe la polivalenza linguistica dello scrittore nel tempo? Alla letteratura è essenziale evitare questo rapporto diretto: essa non parla al lettore, meno che mai al suo cuore; al contrario, gli si presenta, ma non gli si offre, gli impone la fatica di cercare un contatto; lo frusta, lo elude; non risponde alle sue domande. La letteratura è ben lungi dall’esprimere la “totalità dell’uomo”.

Una vita in negativo che senso avrebbe viverla?

Le rispondo con una frase di mio amico che diceva: «È necessario scrivere, non è necessario pubblicare». Come per dire che il problema della vita è quello di migliorare ininterrottamente, giorno dopo giorno, ora dopo ora, ma è sempre il negativo che si fa strada.

Ha letto i media in questo ultimo periodo? Troppi femminicidii (ma sarebbe più opportuno parlare di omicidi) da parte dell’uomo. Come se lo spiega?

Essere donna non è una professione raccomandabile: è, diciamolo pure, il primo, inevitabile passo per diventare una puttana…

Alt! Non andiamo oltre, lasciamo perdere, non ci addentriamo su questa strada dissestata e scoscesa. Nel concludere, poesia o prosa?

Prosa, giacché in generale gli scrittori sono convinti di essere letti da Dio, in quanto si può trovare una frammentaria divinità anche in una scatola di sigarette, in un giro di danza in un denso bicchiere di malvasia; e ci si può suicidare nella gioia di vivere improvvisa d’un lunapark nei battiti dei fucilini ed in ogni gesto del corpo che muova solamente il corpo senza moto dell’anima nel corpo.

Solo gli scrittori?

Il poeta è metafisico, è succube di Dio.

Mica tutti!

Il “Manga”, come veniva chiamato dalla metà dei suoi amici, ha colpito ancora, lasciandoci senza parole.

Giorgio Moio

Poeta, nasce a Quarto (NA) nel 1959. Già redattore di «Altri Termini» e «Oltranza» (di quest'ultima è anche tra i fondatori), per le Edizioni Riccardi, già direttore editoriale, nel '98, anno in cui inizia a partecipare a mostre collettive di poesia visuale (una sessantina fino ad oggi) fonda e dirige la rivista «Risvolti». Dal 2017 dirige la rivista «Frequenze Poetiche» e dal 2021 cura la collana di poesia verbovisuale "Contrappunti", presso l'editore Bertoni. Ha organizzato eventi, partecipato a letture di poesia e ad una sessantina di mostre collettive di poesia visuale. Ha pubblicato una ventina di volumi di poesia, prosa e saggistica, di cui l'ultimo è Contrappunti variabili (Bertoni Editore, 2020 - poesia).

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