Categorie: Caleidoscopio

Interviste impossibili: oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Paul Éluard

Un'altra intervista impossibile. Questa volta tocca al poeta francese surrealista Paul Eluard, uno dei poeti più rappresentativi di tale movimento

Oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Grindel, uno dei maggiori esponenti del surrealismo.
Accidenti! Questi fantasmi si presentano all’improvviso, senza preavviso! Va beh!

Procediamo con l’intervista. Éluard nasce nel 1895 a Saint-Denis, presso Parigi, da una famiglia dai sentimenti socialisti che gli hanno segnato la strada futura verso l’accoglienza dei più deboli e iniziative di lotte per le ingiustizie. Ha fatto parte delle avanguardie storiche, quali dadaismo e surrealismo, per poi distaccarsene più avanti, alla pari dell’uscita dal Partito Comunista, per intraprendere una poesia “pura”, in favore dell’amore, ma mai coercitiva verso la difesa dei diritti civili. Compagno di strada dei vari Breton, Tzara, Paulhan, Soupault e Aragon, la sua opera più importante è Capitale de la douleur, mentre il periodo più ricco d’impegno civile sono gli anni ’30 dove sempre più minacciosa si fa la violenza del fascismo e del nazismo: Éluard è sempre presente contro le forze oscurantiste, neanche la tubercolosi, di cui viene colpito, l’ha arrestato, con l’unica arma che conosce: la poesia. In questo periodo pubblica Morire di non morire (1924), L’amore la poesia (1929), La vita immediata (1932), La rosa pubblica (1934), Facile (1935), Gli occhi fertili (1936), Mani libere (1937), Corso naturale (1938), Poesia e verità (1942), Poesia ininterrotta (1946), Ultimi poemi d’amore (1963), un quasi poema ininterrotto, abbastanza di prosa ma informali, nel periodo intermezzo, dove il «negativo, il male, non è più solo l’ombra portata della sua persona privata ma qualcosa che coinvolge e oscura l’esistenza degli altri […] Il mondo si profila come comunione e purificazione» (F. Fortini, Introd. a Paul Éluard, Poesie, Mondadori, 1985).

Sembra che oggi gli uomini (quelli che sono rimasti tali, ovviamente!) non pensano che a coltivare il loro piccolo e spesso insignificante orticello. Cosa vogliamo dire a questi uomini? 

Gli uomini sono fatti per intendersi, per comprendersi, amarsi. Devono pensare ai figli che saranno padri d’uomini e il futuro del mondo che forse da grandi saranno senza casa, senza patria. Con la speranza che avranno la possibilità di reinventare il concetto di casa, di radici; che reinventeranno gli uomini la natura la patria, quella di tutti gli uomini senza differenze di razze di colore di religione, quella di tutto il mondo! Almeno questo dovrebbe essere l’auspicio per il futuro.

Viviamo in un’epoca dove ci sono troppi individualismi, troppe prepotenze, troppe indifferenze, troppa ignoranza, troppa sottomissione ai poteri forti. Maestro, ha qualche ricetta contro questa quasi endemica “devianza”?

Glielo dirò con una mia poesia, riadattata per l’occasione. Ne esce colui che saprà dedurre la gioia d’un bimbo, non solo dal bel tempo, che saprà esclamare “che gioia”! E di gioia abbiamo tanto bisogno. Dirlo quando le cose vanno bene è molto comodo! Trarre insegnamento a cominciare dai propri familiari, allontanarsi da atti d’abitudini che ci fanno ogni giorno meccanici del piacere, dare una carezza al mondo per farlo eterno, éternel.

Cosa vogliamo dire alla gente?

Voglio dire alla gente e ad ogni singolo uomo di riflettere su quanto gli dà cuore e su quanto lo conforti. Voglio mostrare alla gente come è immensa e divisa, chiusa come al cimitero. Ma la gente è forte più della sua ombra impura, capace di infrangere muri, vincere padroni, spesso se ne dimentica ma errante e rinchiusa in se stessa, non sarà fecondataria fertile di giustizia, in modo da tramutare l’acqua in luce e i sogni in realtà.

Dalla sua biografia si evince che per discostarsi dall’iniziale anarchismo, ha aderito al Partito Comunista come gran parte dei membri del movimento surrealista fondato da Breton, all’interno del quale lei, con la pubblicazione di Capitale de la douleur, una raccolta di sue poesie del 1926, che secondo Fnac Le Monde si colloca al 60°  posto della lista dei 100 migliori libri del XX secolo, viene riconosciuto il più poetico rappresentante della scuola surrealista. Oggi, l’impegno che lei ha profuso in nome della lotta per la verità, contro la repressione della società opulenta, in un trasporto non soltanto poetico ma partecipazione umana e politica. Cosa ha da dire ai suoi colleghi poeti odierni che non sanno fare altro se non rinchiudersi in una “turris eburnea”, facendosi sopraffare dalle forze irrazionali e di smobilitazione?

I rapporti fra le cose, appena stabiliti hanno sempre grandi margini bianchi, grandi margini di silenzio, ove la memoria ardente e sanguigna si consuma per ricreare un delirio senza passato e senza prospettive. La loro principale qualità non è quella di evocare fantasmi (questa è un’eccezione!) ma ispirare. E cosa si può ispirare se non l’amore? Insomma, fate valere i vostri diritti, non delegate agli altri la scelta della vostra esistenza, non rinchiudetevi in voi stessi.

A proposito dell’amore, lei è considerato il poeta surrealista dell’amore, cioè anche dell’amore. Che cos’è per lei l’amore?

Domanda difficile ma allo stesso tempo semplice. Intanto non c’è vita senza amore. Detto questo, l’amore è come una poesia ininterrotta… parlare… / senza aver niente da dire // comunicare / i bisogni dell’anima / dar voce / alle ciglia degli occhi / agli angoli della bocca / parlare / tenendosi per mano // tacere… / tenendosi per mano.

Prima ho accennato al suo Capitale de la douleur che è riferita a Parigi. Ci sono prove chiave sul dolore e sulla morte. Che cos’è per lei il dolore, la morte?

Glielo dirò, o almeno tento, di dirglielo ancora con una mia poesia intitolata Nel mio dolore… Nel mio dolore nulla è in movimento / Di quello che io stesso sono stato / Attendo nessuno verrà / Né di giorno né di notte né mai più // I miei occhi si sono separati dai tuoi occhi / Perdono fiducia perdono la luce / La mia bocca si è separata dal piacere / E dal senso dell’amore e dal senso della vita / Le mie mani si sono separate dalle tue mani / Le mie mani lasciano sfuggire tutto / i miei piedi si sono separati dai tuoi piedi / Non avanzeranno più non ci sono più strade / Non conosceranno più né il peso né il riposo / Mi è concesso di veder finire la mia vita / Con la tua / La mia vita è in tuo potere / Che ho creduto infinita // E l’avvenire la mia sola speranza è il mio sepolcro / Identico al tuo
circondato da un mondo indifferente // Ero così vicino a te che ho freddo vicino agli altri.

Perché le sue poesie sono definite dalla critica “pure”. Ma esiste ancora la purezza in poesia, un modello da seguire?

Non c’e modello per chi cerca quel che non ha mai visto o avuto. Poesia pura? Se esiste ancora non lo so. So che la forza della poesia purificherà gli uomini, tutti gli uomini. Tutte le torri d’avorio saranno demolite, tutte le parole saranno in competizione tra esse e l’uomo, finalmente d’accordo con la realtà, che è sua, dovrà solo chiudere gli occhi perché si schiudano le porte della meraviglia.

Una bella utopia!

Ma in fondo che cos’è la poesia se non rendere possibile l’impossibile? I giorni non sono tutti uguali, perché ci voglio convincere del contrario?

Giorgio Moio

Poeta, nasce a Quarto (NA) nel 1959. Già redattore di «Altri Termini» e «Oltranza» (di quest'ultima è anche tra i fondatori), per le Edizioni Riccardi, già direttore editoriale, nel '98, anno in cui inizia a partecipare a mostre collettive di poesia visuale (una sessantina fino ad oggi) fonda e dirige la rivista «Risvolti». Dal 2017 dirige la rivista «Frequenze Poetiche» e dal 2021 cura la collana di poesia verbovisuale "Contrappunti", presso l'editore Bertoni. Ha organizzato eventi, partecipato a letture di poesia e ad una sessantina di mostre collettive di poesia visuale. Ha pubblicato una ventina di volumi di poesia, prosa e saggistica, di cui l'ultimo è Contrappunti variabili (Bertoni Editore, 2020 - poesia).

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