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Oceani piu’ acidi

Le evidenze dei cambiamenti climatici sono sotto gli occhi di tutti: tutti si accorgono di precipitazioni più inconsuete o di periodi di ondate di calore più prolungati, ma esistono fenomeni connessi ai cambiamenti climatici, meno appariscenti, sebbene estremamente determinanti per il futuro del pianeta. Uno di questi è il processo di acidificazione delle acque marine.

È sicuramente riconosciuto che l’aumento della temperatura atmosferica registrata negli ultimi decenni sia da attribuire all’aumento della concentrazione atmosferica dei cosiddetti gas serra, in primo luogo l’anidride carbonica (CO2). Questa ha raggiunto nel 2018, 410 parti per milione, raddoppiando il valore del periodo pre-industriale. Il destino di questo gas prodotto essenzialmente nei continenti, non finisce nella sola atmosfera. Infatti ogni anno circa 2,3 miliardi di tonnellate di CO2 vengono assorbite dai mari. Gli oceani, cioè funzionano da “carbon sink”, serbatoi di CO2 sottratta all’atmosfera, riducendo così l’effetto serra. Ma, se l’aumento di concentrazione di CO2 nell’atmosfera è estremamente pericoloso, nel mare lo è egualmente.


Ma qual è il destino di questa molecola in mare? Mediante una semplicissima reazione chimica la CO2 reagisce con l’acqua dando acido carbonico (H2CO3), che si dissocia parzialmente liberando ioni H+, cioè diminuendo il pH, aumentando cioè l’acidità.
I dati quantitativi del fenomeno sono stati recentemente (ottobre 2018) analizzati nell’ambito del rapporto speciale dell’ Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sull’impatto del riscaldamento di 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali (http://ipcc.ch/report/sr15/). Il report indica che le acque oceaniche hanno subito dal 1870, un aumentato di temperatura marina superficiale (SST) di approssimativamente 0.9 °C ed il pH è sceso di 0.11 unità, dato senza precedenti da, sicuramente, 65.000 anni, e, probabilmente, 300.000 anni.
Siccome la concentrazione di CO2 continua ad aumentare, il pH scenderà linearmente con la SST raggiungendo una diminuzione di 0.22 unità di pH quando la SST raggiungerà +1.72 °C, tra il 2030 e il 2050; nel 2100 è prevista una diminuzione di pH fino a 0,37 unità. L’acidificazione è più pronunciata dove le temperature sono più basse (regioni polari) o dove l’acqua ricca di CO2 risale dalle profondità fredde verso la superficie. Da notare che l’acidificazione delle acque costali può essere influenzata anche da effluenti naturali o antropici come depositi atmosferici di materiali acidi (piogge acide) (Omstedt et al., Continental Shelf Research, 111, 234-249, 2015).
L’acidificazione può anche influenzare la composizione ionica dell’acqua marina cambiando lo stato di ossidazione di tracce di metalli (per es. aumentando di 20 volte la concentrazione di Al3+) che potrebbero avere impatti importanti, che al momento non sono stati studiati (Stockdale et al., Environmental Science & Technology, 50(4), 1906-1913, 2016).

Quali le conseguenze prevedibili? Da alcuni anni è stato riconosciuto che l’aumento dell’acidità delle acque oceaniche non permette la deposizione del carbonato di calcio nei gusci delle conchiglie in formazione, e solubilizza parzialmente quello già depositato; un danno complessivo all’ecosistema delle barriere coralline è stato ampliamente registrato (Steiner et al., Nat Commun. 2018 Sep 6;9(1):3615).

Nuovi segnali di pericolo sono stati più recentemente segnalati sul patrimonio ittico. Concentrazioni elevate di CO2 nell’acqua marina possono indurre carenze neurologiche, fisiologiche e comportamentali negli animali marini (McNeil, Sasse, Nature, 529:383-6, 2016); un’amplificazione del ciclo annuale di CO2 mostra modelli globali che possono esporre all’esaurimento delle risorse molti decenni prima di quanto ci si aspetti, le principali attività di pesca degli oceani Meridionale, Pacifico e Nord Atlantico.

La sopravvivenza dei pesci esposti a livelli elevati di CO2 nel prossimo futuro è minacciata dalle loro risposte alterate agli stimoli sensoriali (Porteus et al. Nature Climate Change 8, 737-743, 2018); per la spigola (Dicentrarchus labrax) una esposizione ad elevata concentrazione di CO2 riduce del 42% le capacità olfattive, rendendo l’animale meno capace di procurarsi cibo e meno attento ad avvertire la presenza di predatori. L’olfazione compromessa è correlata alla soppressione della trascrizione di geni coinvolti nella trasmissione sinaptica e nell’eccitabilità cellulare e nella compromissione dei recettori dell’acido γ-aminobutirrico. Anche la capacità di orientamento nelle migrazioni oceaniche di alcune specie è stato accertato dipendente dal pH del mare.

Diversi scenari sono descritti a seconda che le emissioni di gas serra rimangono inalterate o vengono drasticamente ridotte. L’attuale tendenza delle emissioni modificherebbe in modo rapido e significativo l’ecosistema mare e, di conseguenza le risorse ittiche dalle quali dipende fortemente l’alimentazione umana. Uno scenario di emissioni ridotte, in linea con l’obiettivo di Parigi di un aumento della temperatura globale inferiore a 2 ° C, è molto più favorevole alla vita negli oceani, ma altera ancora sostanzialmente importanti ecosistemi marini e beni e servizi associati. Le opzioni di gestione per affrontare gli impatti dei cambiamenti globali sul mare si restringono man mano che l’oceano si scalda e si acidifica. Di conseguenza, qualsiasi nuovo regime climatico che non riesce a minimizzare gli impatti oceanici sarebbe incompleto e inadeguato (Gattuso et al., Science 349:4722, 2015).

Umberto Oreste

Biochimico, ha condotto studi, presso l'Istituto di Biochimica delle Proteine del CNR, sull'evoluzione delle molecole immunitarie. Ha partecipato a 5 spedizioni antartiche nell'ambito del Progetto Nazionale di Ricerche in Antartide. Ha collaborato con strutture di ricerca pubbliche di vari paesi. È stato autore di numerosi articoli su riviste scientifiche internazionali. Partecipa all'attività politica di Sinistra Anticapitalista.

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