Categorie: Caleidoscopio

Oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Samuel Beckett

Un'intervista immaginaria con il drammaturgo e poeta irlandese Samuel Beckett

Oggi ci è venuto a trovare Samuel Barclay Beckett: parliamo di teatro dell’assurdo. Il “teatro dell’assurdo” è un termine coniato dallo scrittore e giornalista ungherese Martin Esslin, coniato nel 1940 quando si occupava di drammaturgia per la BBC inglese e ne fece poi il titolo di una sua pubblicazione: The Theatre of the Absurd/Il teatro dell’assurdo (Doubleday & Company, 1961), che ebbe tra i maggiori esponenti della prima generazione (come “padre” letterario Alfred Jarry) Eugène Ionesco, Jean Tardieu, Georges Schehadé, Arthur Adamov e lo scrittore e poeta dublinese Samuel Beckett. Questo concetto filosofico (perché di questo si tratta), ma non esiste nessun genere teatrale o artistico con questa denominazione, si basa sull’assurdità dell’esistenza, elaborazione filosofica del concetto dell’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre negli anni ’30 e quella letteraria e successiva di Albert Camus.

Il teatro dell’assurdo non è altro che il rifiuto del linguaggio logico-consequenziale, rigettando trame e soggetti protagonisti per un’alogica successione di combinazioni basate su una piccolissima e caduca traccia senza significato specifico ma drammatica, per aprirsi a dialoghi senza senso, ironici, ripetitivi ed esplosivi, capaci di far sorridere lo spettatore nonostante il dramma che sono costretti a vivere i personaggi. Due parole suBeckett. Nacque a Dublino il 13 aprile 1906 e morì a Parigi il 22 dicembre 1989). Considerato uno degli scrittori più influenti del XX secolo, la sua opera più famosa è la pièce Aspettando Godot, dramma per l’attesa di qualcosa che non accadrà mai o accadrà in tante cose che si rischia di perdere il filo, un filo molto sottile a quando sembra, per cui  il critico Vivian Mercier scrisse che Beckett «ha realizzato il teoricamente impossibile, un’opera in cui non succede nulla, ma che tiene incollati gli spettatori ai loro posti. In più, considerando che il secondo atto è una ripresa leggermente differente del primo, ha scritto un’opera in cui non succede nulla, due volte» (in «Irish Times», 18 febbraio 1956, p. 16). Discorsi senza senso, sconnessi, futili, banali, con Godot che dovrebbe essere sulla scena ma non c’è, che ci fanno comprendere quanto la vita sia un nonsense, fino a diventare sempre più spessa comica, pur nella tragedia dell’esistenza.

La sua opera maggiore, a detta di tutti, è Aspettando Godot. Quale messaggio porta in sé il linguaggio adottato?

Non riproduce più la rappresentazione individuale, perché non esiste legame tra parola e azione, tra linguaggio e storia, recitazione e realtà. Non esprime più una comunicabilità perché ha smesso di significare, e si ritorce su se stesso fino al puro gusto narcisistico.

Perché il tempo sembra immobile?

Il tempo scorre nel momento che i protagonisti si muovono sulla scena e fanno gesti, anche se essenziali e ripetitivi. C’è silenzio, ma a volte si ride a volte si pensa, aspettando Godot, e in questo passaggio il tempo scorre.

Nelle tradizioni popolari il termine Aspettando Godot è divenuto sinonimo di un qualcosa che sembra imminente ma che non si palesa mai.

Il sole risplende ma non lo possiamo toccare e siamo contenti lo stesso perché perdere tempo è un alibi che ci fa comodo. E che facciamo, ora che siamo contenti? Aspettiamo qualcosa che non arriverà mai.

Ma è un fallimento?

Ma cosa vuol dire fallimento? Io per es. ho sempre tentato di trovare e ho sempre fallito. Ho cercato di discutere ma più delle volte non ho trovato adeguato interlocutore. Ho provato, ho provato ancora. Ho fallito, ho fallito ancora. Ma ho fallito meglio.

Cosa può dire ai giovani che credono che la società sia una loro “nemica”, che la società non può essere migliorata?

È come dire: dove sono? Non lo so. Ma non lo saprò mai se non mi metto a cercare la via. Nel silenzio e nella rassegnazione non lo saprò mai, per ciò si deve andare avanti, anche se non puoi avanzare, ma devi andare. Da un punto di vista non hanno tutti i torti i giovani d’oggi: continuiamo a non preoccuparci di cambiare. Se lo facciamo e perché non possiamo sopportare di annoiarci.

Cosa pensa di questa nostra epoca?

Non diciamo male della nostra epoca, non è più disgraziata delle altre. Non ne diciamo neanche bene: non ne parliamo! Aristotele ci dice che chi è incapace di vivere in società o è sufficiente a se stesso dev’essere una bestia o un dio. Il che sta a significare che si vive con incapacità e impotenza.

A volte le cose incomprensibili sono le più chiare di tutte, ma non abbiamo occhi per accorgercene.

È salutare parlare di cose incomprensibili. Ed è per questo che mi piace il teatro dell’assurdo. Nelson Goodman ci dice che la struttura del mondo dipende dai modi in cui lo consideriamo, e da ciò che facciamo. E ciò che facciamo, in quanto esseri umani, è parlare e pensare, costruire, agire e interagire. Noi costituiamo i nostri mondi costruendoli. Ma li abbiamo costruiti male dove si vive con incapacità e impotenza.

Mi sembra una società votata solo all’infelicità.

Montale diceva che l’’uomo coltiva la propria infelicità per avere il gusto di combatterla a piccole dosi. Quindi, non c’è niente di più comico dell’infelicità.

Allora un uomo infelice è stupido?

Cioran dice che la felicità spinge al suicidio quanto l’infelicità, anzi ancora di più perché amorfa, improbabile, esige uno sforzo di adattamento estenuante, mentre l’infelicità offre almeno la sicurezza e il rigore del rito.

Ma Cioran era un pazzo!

Può darsi, ma noi non ci preoccupiamo di cambiare: non possiamo sopportare di annoiarci.

Cosa vuol dire questo?

Si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano.

Lei parla spesso di silenzio dell’assurdo per ascoltare le voci che le parole coprono. Allora l’arte deve essere silenzio? Così non c’è il rischio che tutto si assomigli? 

Tutte le arti si assomigliano: sono un tentativo per riempire gli spazi vuoti, che restano sempre vuoti.

Giorgio Moio

Poeta, nasce a Quarto (NA) nel 1959. Già redattore di «Altri Termini» e «Oltranza» (di quest'ultima è anche tra i fondatori), per le Edizioni Riccardi, già direttore editoriale, nel '98, anno in cui inizia a partecipare a mostre collettive di poesia visuale (una sessantina fino ad oggi) fonda e dirige la rivista «Risvolti». Dal 2017 dirige la rivista «Frequenze Poetiche» e dal 2021 cura la collana di poesia verbovisuale "Contrappunti", presso l'editore Bertoni. Ha organizzato eventi, partecipato a letture di poesia e ad una sessantina di mostre collettive di poesia visuale. Ha pubblicato una ventina di volumi di poesia, prosa e saggistica, di cui l'ultimo è Contrappunti variabili (Bertoni Editore, 2020 - poesia).

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Giorgio Moio

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