Culture

Ciò che dalle macerie continua a rinascere

23 novembre 1980, sono passati 40 anni dal terribile terremoto che colpì l'Irpinia e la Basilicata.

Duemilanovecentoquattordici persone ci lasciarono, quarant’anni fa. La maggior parte se ne andò nel breve volgere di quei novanta secondi, tra le 19.34 e le 19.36 di un 23 Novembre del 1980 che tutti ricordano come insolitamente caldo.

Il sole era già tramontato, la maggior parte delle famiglie era riunita a casa, tante persone seguivano ancora l’ultima messa della domenica. Paesini incastonati tra le colline del Vulture e rumorose metropoli: ritmi di vita e abitudini diverse.

Sogni, speranze, ansie e prospettive diverse eppure, in fondo, così simili.

Tutto si fermò di fronte a quel lungo rombo, come un immenso fermo immagine posto lungo il film di milioni di esistenze.

Cittadine cancellate sotto una nuvola di polvere, una montagna di macerie, e tante urla, che nei giorni a seguire diventarono sempre più flebili, fino a confondersi coi sospiri di chi, a Roma, si rese conto solo tempo dopo che avrebbe dovuto agire molto, molto più rapidamente.

Tra il terribile fracasso del crollo di migliaia di case e il disperato silenzio che avvolgeva gli scavi a mani nude dei primi soccorritori, in quell’indimenticabile Novembre di quarant’anni fa si levò più alta di tutte la voce vera e commossa, lo sgomento autentico e partecipe del Presidente Pertini, che letteralmente corse tra la gente che non aveva più neanche una tenda sotto cui riparare i propri figli.

Ma si sa, anche la più ferma volontà di un uomo come Sandro Pertini, partigiano e Capo dello Stato, nulla avrebbe potuto di fronte alla disorganizzazione di una “macchina dei soccorsi” che non era strutturata per affrontare in modo corale una catastrofe di tali dimensioni. Così, come nell’immediato dopoguerra, fu l’aiuto reciproco e il coraggio delle piccole comunità ferite a consentire alle popolazioni colpite di tornare a guardare avanti.

Quello che è successo nei mesi e negli anni che seguirono lo racconta la storia: dalla pioggia di miliardi che furono stanziati per la ricostruzione -una ricostruzione che, chissà perché, durò decenni- alle poche mani nelle quali quei miliardi finirono.

“Storie di un’Italia diversa”, si ostina a dire qualcuno. Storie italiane, dovremmo forse scrivere.

Tra i milioni di storie, che da quel 23 Novembre nacquero o che in quella sera stessa si consumarono, c’è anche il ricordo che un bambino di allora porterà per sempre scritto nell’anima: all’età di otto anni alla morte non si pensa, e quella sera l’assordante scricchiolio delle mura di casa sua lo sbalordì ma non poteva preoccuparlo. Era novità, non pericolo.

Il terrore gli strinse la gola solo per pochi istanti, quando il suo papà lo prese al volo in braccio e corse ad abbracciare la mamma e suo fratello. Tenuti tutti stretti, l’uomo disse solo -in un dialetto che In quei secondi sembrò la sola “parola” esistente- “Se dobbiamo morire, moriremo tutti insieme”. Le braccia del papà gli sembrarono lunghissime e fortissime. Ali protettrici che subito scacciarono l’improvviso terrore.

Il fracasso intorno a quell’abbraccio presto cessò: il destino aveva riservato per quella famiglia un futuro diverso. Anzi, aveva   deciso che per loro ci sarebbe ancora stato un futuro. Ma quel giorno, e per sempre, da quelle parole in dialetto il bambino imparò il significato sacro dell’amore. Quello che anche oggi riesce a dare speranza di fronte ai più gravi disastri, che suggerisce a un infermiere di un covid center di prestare il proprio cellulare perché un malato videochiami casa.

Lo stesso amore che spinse il giovane Pertini a rischiare la sua vita quand’era già al sicuro, per tornare indietro e salvare da morte certa altri suoi compagni partigiani.

Ma quella -continuerà a dire qualcuno- “era tutta un’altra Italia”.

Carmine Ciniglia

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Carmine Ciniglia

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