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“I vecchi e i giovani” di Pirandello: la nefasta eredità del Risorgimento

Dopo il Verga e il De Roberto, che al tema del Risorgimento, avevano dato una precisa impostazione, l’uno facendosi testimone attento della miseria delle plebi meridionali disattesa dal nuovo stato e l’altro rivelando la corruzione di una aristocrazia avida, per cui l’unificazione del Sud è solo occasione per riempirsi le tasche, Pirandello  affronta  il compito ingrato di rappresentare l’ultimo atto di questo processo risorgimentale che tradisce se stesso, con uno dei suoi romanzi meno conosciuti  sui Fasci siciliani. Questi sono un movimento di massa di ispirazione democratica e socialista, sviluppatosi in Sicilia dal 1891 al 1894 e diffusosi fra proletariato urbano, braccianti agricoli, minatori ed operai, che venne disperso solo dopo un duro intervento militare sotto il governo Crispi. Il romanzo, I vecchi e i giovani, indaga anche sugli scandali della Banca Romana, caso politico-finanziario che ha riguardato alcuni settori della Sinistra storica, accusati di collusione negli affari illeciti della Banca Romana, che all’epoca era abilitata ad emettere moneta circolante in Italia.

 Il titolo dell’opera non si riferisce, come potrebbe sembrare, a un conflitto generazionale, ma alla pesante e ambigua eredità morale e civile che la generazione del Risorgimento finisce per lasciare ai suoi figli. Essa infatti, dopo aver lottato per l’Unità d’Italia al tempo della sua entusiasta giovinezza, nella maturità ne distrugge gli ideali più nobili coi suoi sistemi di governo. Gli scandali bancari e la minaccia rivoluzionaria delle plebi siciliane, scoprendo la corruzione e le colpe del ceto dominante, denunciano apertamente, secondo lo scrittore, il crollo del patriottismo: ai nobili e generosi ideali del Risorgimento si è sostituita una macchina statale cinica e disinteressata ai bisogni del paese, mossa solo da calcoli egoistici e opportunistici, capace persino di macchiarsi del sangue innocente dei suoi stessi cittadini.

L’ impostazione di Pirandello si distacca dal “verismo economico” nel quale sia Verga che De Roberto avevano raccontato il fallimento risorgimentale nel Sud d’Italia subito dopo l’Unità. Non gli interessa tanto la descrizione oggettiva delle parti in causa quanto raccontare, con passione e partecipazione viva e emozionata, come nel giro di pochi anni tutto un patrimonio di idealità sia andato smembrandosi. Il romanzo ci mostra quanto questa perdita del senso patriottico generi le terribili conseguenze di un Risorgimento nazionale abortito per mano degli ex idealisti che lo avevano voluto, divenuti ora predatori e avvoltoi dei loro stessi compatrioti.

 

L’azione del romanzo trascorre nell’arco di due anni, dalle elezioni politiche del 1892 allo stato d’assedio del 1894. Il luogo scelto per mettere in scena questa drammatica rappresentazione è Girgenti, specchio di tornasole dell’Italia intera, dove le sorti di tutti sono praticamente in balia di tre forze che operano concordi:  la grande potenza economica e finanziaria di don Flaminio Salvo, padrone di terre, di banche e di zolfare; il superstite borbonismo del principe don Ippolito Laurentano; e infine l’influenza della Chiesa  e del Partito cattolico, la cui concorde azione pesa sull’intera città, ne soffoca ogni istanza di giustizia e ogni speranza di uguaglianza e libertà.

Il Ministro Crispi, per tentare di controllare l’azione di queste forze reazionarie, in occasione delle elezioni politiche manda a Girgenti Roberto Auriti col compito di strappare il collegio ai clericali. Ma, da liberale qual è, non è in grado di dare a Roberto gli unici strumenti che potrebbero ribaltare la situazione: presentare a nome del governo un chiaro e solido programma di rigenerazione economica e politica nello spirito del Risorgimento garibaldino. Auriti, lasciato senza risorse davanti a un potere ben più forte e radicato, tenta di vincere invocando il vecchio patriottismo, mettendo in campo il ricordo della battaglia di Milazzo, alla quale aveva partecipato a soli dodici anni, come il più piccolo dei Mille. Ma il suo si rivela ormai un patriottismo puramente formale, privo di contenuto, costruito su una vuota retorica che non conquista nessuno. La sua sconfitta politica segna la sconfitta morale di tutta la vecchia classe risorgimentale.

Nel racconto che   Pirandello ci fa di questi eventi si sente non solo il dolore del patriota ma anche quello del siciliano che si considera doppiamente tradito, perché misconosciuto e disprezzato nel contributo volontario e eroico che la Sicilia ha dato all’Unità, ricevendone solo, quale amara ricompensa, incomprensione e sfruttamento in decenni di malgoverno e distruzione dei grandi ideali risorgimentali. 

Nei Fasci siciliani Pirandello vede l’atto di accusa più grave e più potente contro i carnefici del sud. Nel romanzo, a due personaggi, simbolici testimoni e martiri di tutta un’epopea, lo scrittore affida il compito di sostenere la fiaccola dell’ideale risorgimentale contro la corruzione che l’ha degradato: uno è donna Caterina Laurentano, l’altro è il vecchio Mauro Mortara, L’uno e l’altro muoiono vittime della loro fedeltà all’utopia, e con loro muore l’ultima fiamma del patriottismo risorgimentale.

Ma quella fiamma patriottica, ci dice Pirandello, non solo non ha liberato la Sicilia, ma l’ha consegnata a un nuovo e forse peggiore dispotismo. Nei trent’anni del nuovo governo unitario, non importa chi ci fosse al potere, governi di destra o di sinistra, l’isola si è vista straziata nelle sue carni. La rivoluzione garibaldina avrebbe dovuto porre fine ad ogni privilegio e sopruso, e originare una nuova epoca di libertà e di giustizia. Non lo ha fatto e allora consapevolmente Pirandello ci dice, attraverso il personaggio di Donna Caterina Laurentano, che lo spirito autentico del Risorgimento non sta nello Stato nato da esso, nei prefetti oppressori e nelle truppe che sparano, ma nella ribellione degli sfruttati e degli oppressi, nei Fasci della rivolta.

A questa visione così logica e coerente, pienamente consapevole del moto risorgimentale e delle sue successive storture, si contrappone quella del vecchio Mauro Mortara, un semianalfabeta, un sognatore invaso da un autentico sentimento unitario, che aveva fatto la rivoluzione del Quarantotto e le campagne del Sessanta. Da molti anni   rinchiuso nel feudo di Valsania, alle dipendenze di don Cosmo, vive fuori del mondo, immerso nei ricordi del passato, preda di un patriottismo cieco, immobile che non si è misurato con la realtà.

In lui Pirandello coglie l’origine e il primo sintomo del sentimento nazionalistico e imperialistico che porterà alle guerre coloniali e al fascismo. «L’Italia è grande! – dice Mauro -L’Italia è alla testa delle nazioni! Detta legge al mondo», senza capire il baratro nel quale il paese sta scivolando.  Mauro non si è reso conto di come, nei trent’anni trascorsi dalla sua eroica giovinezza, l’orrore di tante ingiustizie subite, la miseria per la quale nulla è stato fatto, abbia provocato il crollo delle illusioni in Sicilia e nel Sud. Per questo le sommosse contadine gli appaiono un attentato contro la patria, e per questo armato e con le medaglie al petto si precipita a unirsi ai soldati. Ma giunto a Favara, nel pieno della rivolta, travolto dalla folla che fugge, viene colpito subito da una pallottola. Quando i soldati, tra i cinque cadaveri rimasti a terra, lo rigirano a faccia in su notano sul suo petto insanguinato cinque medaglie al valore. Il loro stupore è grande e si chiedono costernati chi mai abbiano ucciso. Con questa terribile domanda si chiude il romanzo. Ma ciò che non sanno i personaggi travolti dagli eventi lo sa lo scrittore e lo capiamo immediatamente noi lettori per la forza incisiva delle sue parole: con l’ultimo superstite del garibaldinismo isolano è morta anche l’ultima possibilità di redenzione. Volutamente lo scrittore fa uccidere Mauro proprio da quelle truppe in cui un tempo aveva creduto e che aveva salutato come liberatrici e lo fa cadere tra la sua gente, tra siciliani come lui vittime dell’inganno e della repressione. Con questa scena Pirandello decreta il sanguinoso tramonto dei princìpi e delle speranze del Risorgimento, e cala definitivamente con una radicale condanna il sipario sull’epopea risorgimentale in Sicilia, apertasi nel Sessanta a Calatafimi e a Palermo.

Il romanzo pubblicato nel 1913, quando a dominare la scena letteraria c’erano nomi come D’Annunzio, Carducci, Gozzano e i Crepuscolari, si presentava come un pesante sasso gettato contro un ingranaggio che non voleva ostacoli di nessun tipo, ancora più incomodo di come erano apparsi a suo tempo “Libertà” di Verga o “I Vicerè” di De Roberto. Ci voleva per attaccare a quel modo il governo uno straordinario coraggio come uomo e come scrittore. Si era appena conquistata la Libia e Pirandello, con lucida preveggenza si accorse di ciò che stava per accadere, di come quella monarchia liberale che aveva fallito nel fare degli italiani un unico popolo con gli stessi diritti e doveri, si stava pericolosamente avviando a una deriva autoritaria che avrebbe portato alla perdita di ogni libertà e giustizia. 

Grazia Fresu

Docente di letteratura italiana nell'università Nazionale di Cuyo a Mendoza (Argentina), scrittrice, drammaturga, poetessa, ha pubblicato libri di poesia, collaborato a diverse antologie collettive, organizzato eventi di narrazione e teatro con testi suoi e di altri. I suoi saggi letterari e di costume e le sue conferenze presentate in università, congressi, biblioteche, musei d'arte sono stati pubblicati negli atti dei congressi cui ha partecipato e in riviste specializzate sia in italia che in Argentina. Collabora con la rivista online L'Ideale.

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