“Il Gattopardo” (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è un altro romanzo fondamentale del filone meridionalista.
Fin dai primi anni Trenta, Tomasi di Lampedusa aveva intenzione di scrivere un romanzo che raccontasse lo sbarco di Garibaldi in Sicilia visto attraverso gli occhi del suo bisnonno. Ma questa storia venne scritta solo negli ultimi trenta mesi della sua vita e venne pubblicata dopo la sua morte, decretandogli una enorme fama postuma (visto il successo del romanzo in Italia e all’estero e, pochi anni dopo, del film di Luchino Visconti).
“Il Gattopardo” è dunque un romanzo sul Risorgimento, ed è un romanzo che esprime una posizione polemica nei confronti degli esiti del processo di unificazione nazionale, come le altre opere di cui abbiamo parlato in questa serie di articoli sulla letteratura meridionalista. Ma vedremo con quali nuovi risvolti, considerando anche i tempi differenti nei quale fu scritto, siamo nel decennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale. La critica sul romanzo ha ampiamente dibattuto circa le somiglianze e differenze tra Tomasi e gli illustri scrittori siciliani che lo hanno preceduto, da Giovanni Verga a Federico De Roberto, a Luigi Pirandello. Appare evidente, da questa compagine di scrittori del Sud, che sono stati loro a rappresentare la parte antirisorgimentale della letteratura postunitaria, impegnandosi in un’ accusa documentata del fallimento risorgimentale nel mezzogiorno, mentre gli scrittori del Nord, attratti soprattutto dalle sperimentazioni linguistiche, nonché dallo “psicologismo” insinuatosi lentamente nella scrittura dopo le esperienze freudiane, rappresentano gli intellettuali che, tirandosi fuori dalla politica e dalla storia, si inseriscono senza contestazioni e ribellioni nel tessuto dell’Italia unita. Umberto Eco avrebbe chiamato “apocalittici” i primi e “integrati” i secondi.
L’Italia, per Tomasi, è nata nel peggiore dei modi, in mezzo alla corruzione e ai brogli elettorali. Il Principe, durante una battuta di caccia, ripensa a quella giornata che ha segnato una svolta nella storia della Sicilia: il plebiscito pe l’unificazione. Durante il dialogo con don Ciccio Tumeo, scopre che ogni opinione contraria ai Piemontesi è stata annullata nell’esito ufficiale dello scrutinio, gestito da forze unanimamente favorevoli al processo di unificazione. Tutto diventa subito tragicamente chiaro agli occhi del Principe: il broglio elettorale ha accompagnato la nascita del nuovo Stato, unificato non sul reale consenso dei cittadini ma sulla sopraffazione – più ingannevole e ipocrita rispetto a quelle del passato – ma non meno violenta nei risultati, esercitata dai vincitori, per cui la democraticità della scelta è stata soltanto apparente.
Anche per Tomasi di Lampedusa, come per la maggioranza degli scrittori siciliani, il paesaggio si carica di significati ideologici, si fa portatore di una visione politica, vibra con la gente nelle vicissitudini personali e della storia. Così come nel pirandelliano “I vecchi e i giovani”, la pioggia di fango che cade su Roma ce la denuncia, non già in quanto capitale degli ideali risorgimentali, ma centro della corruzione; ne “Il Gattopardo” il vento che soffia incessantemente nel giorno del plebiscito sarà un «vento impuro» che ha sapore di corruzione e di marcio.
Soprattutto si rende conto che se qualcosa è cambiato nella storia, non è cambiata l’essenza dell’uomo, che resta feroce, egoista, desideroso di dominare sugli altri, attaccato alla proprietà e al denaro, valori supremi per il ceto aristocratico, per la borghesia emergente e anche per il popolo. Per questo la storia dell’uomo resta una storia di sopraffazioni, di violenze, di corruzione.
Il Principe ha i piedi nella storia perché comunque si trova a vivere in un tempo storicamente determinato, ma ha la testa nell’eternità. Sa che oltre alla vita terrena esiste qualcosa che è infinito, sa che esiste la morte, la sente presente in lui e intorno a lui, la contempla quotidianamente osservando il cielo stellato.
“Il Gattopardo” è anche quindi un romanzo sulla morte: si apre con le parole del rosario “Nunc et in hora nostrae mortis. Amen” e si conclude con il cadavere imbalsamato del cane di famiglia, Bendicò, che viene scaraventato giù dalla finestra trasformandosi «in un mucchietto di polvere”.
Tomasi di Lampedusa ci mostra, nel personaggio del Principe, un aristocratico, totalmente dissimile dai corrotti Uzeda de “I Vicerè” di De Roberto, che alla fine della sua vita intensa fa i conti con la sua umanità, con la storia e con l’eternità, privo di quella cecità che affligge gli altri, come suo nipote Tancredi, inchiodandoli alla contingenza del loro tempo storico, quel tempo limitato in cui vivono e che solo comprendono in termini di potere e denaro. Figura umana prima che rappresentante di una classe sociale, il Principe di Salinas non crede nell’aldilà, sa che la morte lo consegnerà al buio eterno, ma crede che quel breve spazio che è la vita tra due “Nulla” vada vissuto sentendovi dentro un senso profondo di eternità.
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