Categorie: Caleidoscopio

Interviste impossibili: oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Pablo Neruda

Un'intervista impossibile al fantasma del poeta cileno Pablo Neruda. Si parla soprattutto d'amore

Oggi ci è venuto a trovare il fantasma del poeta cileno Pablo Neruda, nome de plume in omaggio a Juan Neruda, uno scrittore e poeta praghese dell’800 osteggiato dalla critica, per aggirare la ferrea vigilanza del padre che era contrario che il figlio intraprendesse la strada impervia della poesia. Parliamo d’amore e di diritti, e di cosa dovremmo parlare in questo mondo opulento, arrogante ed egoista? A 19 anni scrisse la sua opera in versi tra le più apprezzate, Crepuscolario, unitamente a Veinte poemas de amor y una canción desesperada, che venne rifiutata da diversi editori che ritenevano quel tipo di poesia modernista ed erotica per il bigottismo di quel periodo. Furono tradotti in vari paesi spianando la strada a Neruda quale grande poeta. 

Un vincitore del Premio Nobel come lo è stato lei nel 1969, cosa ha a che fare con la politica?

Ha a che fare per due motivi: 1) perché la poesia è anche politica e la politica è anche poesia; 2) le lotti sociali che ho affrontato avendo vissuto, anche se da privilegiato, in territori dove la democrazia spesso era latitante, ho tentato di combatterle dall’interno,
anche con ruoli istituzionali
durante la presidenza del mio amico Allende, quale la carica di senatore indipendente comunista e ambasciatore a Parigi e a Cuba dove, nonostante fossi amico di Che Guevara venni trattato abbastanza maluccio. D’altronde un comunista come me che nel 1953 è stato insignito del Premio Lenin per la Pace, difficilmente poteva esimersi dalla politica, dalle lotte e dalle denunce per i diritti sciali degli umili con l’arma più efficace che possedevo: la poesia, anche se mi è costata cara, ho subito censure e persecuzioni politiche, oltre che l’espatrio per la mia opposizione al governo autoritario di VidelaAi dittatori dicevo: «Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia».

Quanto ha contato per lei Gabriela Mistral, Nobel per la letteratura nel ?45, sua insegnante nell’età scolastica la scelta di diventare poeta?

Mio padre era contrario, sosteneva che la poesia fosse un’attività poco rispettabile, che non riempiva la pancia. E se non fosse stato per l’incoraggiamento della mia insegnate, dopo che lesse il mio primo articolo su una rivista locale (avevo appena 13 anni),  forse avrei fatto solo il politico.

Oggi c’è sempre più bisogno di amore e di poesia. Che cos’è per lei la poesia?

La poesia è un atto di pace e di amore. La poesia è sempre un atto di pace. Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina. I poeti sono chiamati a difendere la pace da chi la vuole distruggere, rovinare la purezza della vita.

La sua poesia spazia dal realismo al surrealismo, dall’intimismo a quella civile-politica. Chi sono stati i poeti ai quali si è ispirato?

I principali sono stati Francisco de Quevedo, Arthur Rimbaud e soprattutto Walt Whitman, il mio vero maestro, guida morale e artistica. Diceva: « Credo che un filo d’erba non sia da meno del lavoro quotidiano compiuto dalle stelle». Vede? Da lui ho appreso l’amore per la natura. Amare è così breve, e dimenticare così lungo.

A volte la vita è troppo pesante: si è perso il gusto del gioco dell’ironia. Lei è un uomo giocoso o uno di quelli intellettuali chiusi nella loro seriosità?

Sono serio ma mi piace giocare, mi aiuta non prendermi troppo sul serio, a prendere la vita per quella che è. Sono anche un uomo spontaneo. La spontaneità è frutto di lunghe meditazioni. Nella mia casa ho riunito giocattoli grandi e piccoli, senza i quali non potrei vivere. Il bimbo che non gioca non è un bambino, ma l’adulto che non gioca ha perso per sempre il bambino che era dentro di sé e che gli mancherà molto. Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l’aria ma non togliermi il sorriso. 

Oggi l’amore è sostituito da guerre, da capitalisti senza scrupoli. Vuol dire qualcosa a questa gente.

Potranno tagliare tutti i fiori ma non fermeranno mai la primavera. L’amore quando la vita ci incalza è solo un’onda più alta fra le onde. 

Cosa ha da dire ai giovani che per la loro timida opposizione alle arroganze della vita o si arrendono o fanno finta di niente?

La timidezza è una condizione strana dell’anima, una categoria, una dimensione che si apre alla solitudine. È anche una sofferenza inseparabile, come se si avessero due epidermidi, e la seconda pelle interiore s’irritasse e contraesse di fronte alla vita. Fra le compagini umane, questa qualità o questo difetto fa parte di un insieme che costituisce nel tempo l’immortalità dell’essere. Essere “vivo” richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Cosa pensa della banalità della vita che oggi ha raggiunto livelli insopportabili?

Si è perso il gusto di amare le piccole cose, di opporsi alle convenzioni, di disprezzare l’ordine costituito che mina giorno dopo giorno la libertà, l’esistenza di una vita fatta d’amore per la vita. La vita è semplice come la poesia dalle forme semplici, ma palpitante di forti emozioni, dove l’argomento principale, almeno per me, resta l’amore, l’amore sopra ogni cosa, l’amore verso una donna, l’amore verso gli amici, l’amore verso la natura e le nostre origini, verso l’esistenza, verso un sentimento di felicità. Un mio volume ha per titolo Storia di acque, di boschi, di popoli, una serie di prose brevi dove esprimo un concetto romantico e allo stesso tempo drammatico della vita, fonte indispensabile per le mie poesie.

Si è sempre più schiavi delle abitudini, la vita è diventata monotona. Si muore un po’ alla volta dentro. Come ne usciamo?


Ha ragione. Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non  parla a chi non conosce. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Vogliamo chiudere in bellezza questa intervista? Ci faccia partecipe di una sua poesia d’amore.

Ti manderò un bacio con il vento / e so che lo sentirai, / ti volterai senza vedermi ma io sarò li / Siamo fatti della stessa materia / di cui sono fatti i sogni / Vorrei essere una nuvola bianca / in un cielo infinito / per seguirti ovunque e amarti ogni istante / Se sei un sogno non svegliarmi / Vorrei vivere nel tuo respiro / Mentre ti guardo muoio per te / Il tuo sogno sarà di sognare me / Ti amo perché ti vedo riflessa / in tutto quello che c’è di bello / Dimmi dove sei stanotte / ancora nei miei sogni? / Ho sentito una carezza sul viso / arrivare fino al cuore / Vorrei arrivare fino al cielo / e con i raggi del sole scriverti ti amo / Vorrei che il vento soffiasse ogni giorno / tra i tuoi capelli, / per poter sentire anche da lontano / il tuo profumo! / Vorrei fare con te quello / che la primavera fa con i ciliegi.

Giorgio Moio

Poeta, nasce a Quarto (NA) nel 1959. Già redattore di «Altri Termini» e «Oltranza» (di quest'ultima è anche tra i fondatori), per le Edizioni Riccardi, già direttore editoriale, nel '98, anno in cui inizia a partecipare a mostre collettive di poesia visuale (una sessantina fino ad oggi) fonda e dirige la rivista «Risvolti». Dal 2017 dirige la rivista «Frequenze Poetiche» e dal 2021 cura la collana di poesia verbovisuale "Contrappunti", presso l'editore Bertoni. Ha organizzato eventi, partecipato a letture di poesia e ad una sessantina di mostre collettive di poesia visuale. Ha pubblicato una ventina di volumi di poesia, prosa e saggistica, di cui l'ultimo è Contrappunti variabili (Bertoni Editore, 2020 - poesia).

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Giorgio Moio

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