Categorie: Caleidoscopio

Interviste impossibili. Oggi ci viene a trovare il fantasma di Italo Calvino

Un'intervista impossibile al fantasma dello scrittore Italo Calvino

Oggi ci è venuto a trovare il fantasma dello scrittore Italo Calvino: parliamo di politica e di ars combinatoria. Calvino nasce nel 1923 a Santiago de Las Vegas (Cuba), dove il padre dirige una Stazione Agronomica sperimentale per la produzione di canna da zucchero. I suoi genitori sono di Sanremo il padre e di Sassari la madre. Di Cuba Calvino non ha ricordi: «Della mia nascita d’oltremare conservo solo un complicato dato anagrafico (che nelle brevi note bio-bibliografiche sostituisco con quello più “vero”: nato a Sanremo), un certo bagaglio di memorie familiari, e il nome di battesimo che mia madre, prevedendo di farmi crescere in terra straniera, volle darmi perché non scordassi la patria degli avi, e che invece in patria suonava bellicosamente nazionalista».

Nel 1925 i coniugi Calvino decidono di ritornare in Italia e si stabiliscono a Sanremo dove lo scrittore vive un’infanzia felice: «Sono cresciuto in una cittadina che era piuttosto diversa dal resto dell’Italia, ai tempi in cui ero bambino: San Remo, a quel tempo ancora popolata di vecchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e cosmopolita. E la mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l’Italia d’allora: scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori e pacifisti». È nella Sanremo cosmopolita che maturerà il Calvino che tutti conosciamo.

 

C’è uno sdoppiamento dei piani interpretativi nella sua produzione. Penso al periodo fantastico allegorico-simbolico di Il visconte dimezzato, il contrasto tra realtà e illusione de I nostri antenati  o di puro pessimismo dove la realtà appare minacciosa de Il cavaliere inesistente. Cosa ci ha voluto dire, che il vero inferno è sulla Terra dove non ci sono equilibri e verità assolute?

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Oggi la politica appare come un quadro di Pollock: un miscuglio di caos. Qual è stata la sua posizione nei confronti della politica?

Probabilmente è iniziata a prendere una strada ben precisa durante la mia infanzia dove assistetti ad una scena agghiacciante: un gruppo di squadristi pestarono a morte un socialista con manganellate, dopo un attentato a Mussolini. Ai miei occhi di bambino (eravamo nel 1926), quella scena mi fece capire che non sarei mai stato un fascista. Ma la scelta definitiva maturò durante la guerra. Su un periodico milanese mi definii un anarchico, ma la mia scelta non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” e perciò mi ero definito anarchico, passando per una serie di peripezie. Sono passato attraverso una inenarrabile serie di pericoli e di disagi. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accumulato, anzi avrei voluto fare di più.

Facessero così anche i nostri politici, cioè fare tabula rasa e ripartire! Ma non c’è limite al peggio. Mi scusi: ma allora come è diventato comunista pur vivendo in un mondo agiato e sereno?

Forse ha inciso l’esperienza di partigiano. Fino a quando non scoppiò la seconda guerra mondiale, il mondo mi appariva un arco di diverse gradazioni di moralità e di costume, non contrapposte ma messe l’una a fianco dell’altra. Ma non ho mai esaltato l’idea comunista sotto il profilo culturale e filosofico, ma l’aspetto sociale a difesa dei diritti e della dignità umana. Con questa ideologia ho aderito al Partito Comunista Italiano, divenendone attivista.

Ma questa sua posizione politica le ha creato qualche problema?

Non credo che questo mi abbia nuociuto: ci si abitua ad avere ostinazioni nelle proprie abitudini, a trovarsi isolati per motivi giusti, a sopportare il disagio che ne deriva, a trovare la linea giusta per mantenere posizioni che non sono condivise dai più. Ma soprattutto sono cresciuto tollerante verso le opinioni altrui.

Come è riuscito a conciliare il suo spirito anarchico e libertario con questa posizione comunista?

Infatti non sono riuscito a conciliarlo. Al XX Congresso del PCUS del 1956 ho espresso tutto il mio dissenso per certi aspetti della politica sovietica, contraria alla libera espressione democratica, anche in seno al nostro Partito Comunista, troppo chiuso culturalmente.

Perché allora rimase nel partito? E qual era la sua idea di comunismo, lei che è stato amico di Che Guevara?

L’idea di un nuovo PCI riformato e rifondato, di matrice giolittiana. Poi, dopo la disillusione che mi assalì quando i russi invasero l’Ungheria, presi la decisione di abbandonare il partito.

Lasciamo la politica e addentriamoci nella sua poetica. I suoi esordi sono di matrice neorealista con il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, frutto della sua esperienza partigiana. Come avviene il passaggio ad una letteratura allegorico-fantastica, ad una realtà come sogno, ad uno schema a incastro?

Intorno agli anni sessanta, con una letteratura intesa come gioco combinatorio, prendendo la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. Ero convinto che l’universo linguistico stesse soppiantato la realtà per un meccanismo artificiale di combinazioni delle parole, molto vicino alla Neoavanguardia, ma il mio linguaggio è differente in quanto più comprensibile e risente dello strutturalismo, della semiologia di Barthes e del linguaggio labirintico di Borges. 

Concludiamo questa intervista con una sua poesia (Oltre il ponte). Già, perché Calvino era anche poeta, una poesia della tragica esperienza della guerra: «Avevamo vent’anni oltre il ponte / oltre il ponte che è in mano nemica / vedevamo l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte / tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore / a vent’anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore».

Giorgio Moio

Poeta, nasce a Quarto (NA) nel 1959. Già redattore di «Altri Termini» e «Oltranza» (di quest'ultima è anche tra i fondatori), per le Edizioni Riccardi, già direttore editoriale, nel '98, anno in cui inizia a partecipare a mostre collettive di poesia visuale (una sessantina fino ad oggi) fonda e dirige la rivista «Risvolti». Dal 2017 dirige la rivista «Frequenze Poetiche» e dal 2021 cura la collana di poesia verbovisuale "Contrappunti", presso l'editore Bertoni. Ha organizzato eventi, partecipato a letture di poesia e ad una sessantina di mostre collettive di poesia visuale. Ha pubblicato una ventina di volumi di poesia, prosa e saggistica, di cui l'ultimo è Contrappunti variabili (Bertoni Editore, 2020 - poesia).

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Giorgio Moio

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