Mettere il complesso dei nostri beni culturali in condizione di produrre ricchezza (e ricchezza di quella buona, che procura anche il progresso sociale e culturale della nazione) richiede investimenti, e concedere alcuni diritti sull’immagine a chi intervenga, rischiando capitali propri per obiettivi collettivi, sembra essere la soluzione migliore e più efficiente almeno oggi e fin quando lo Stato non tornerà a poterlo fare in proprio
È di questi giorni la notizia di un’inchiesta sull’assegnazione degli appalti relativi al restauro del Colosseo. Considerato il malcostume che funesta l’assegnazione di appalti pubblici, la notizia non avrebbe alcuna singolarità se non riguardasse il più celebre ed emblematico dei monumenti italiani e una procedura inconsueta per l’Italia. L’intero costo delle operazioni di restauro, infatti, sarebbe stato sostenuto dal gruppo Tod’s di Diego Della Valle, per un ammontare di 25 milioni di euro. La situazione è al momento congelata, poiché il Tar del Lazio ha rinviato al 7 marzo la decisione in merito al ricorso del Codacons.Il generoso finanziamento offerto dall’imprenditore, infatti, ha suscitato polemiche violente, soprattutto presso sindacati e associazioni di consumatori, polemiche di natura non sempre chiara. Se le perplessità del Codacons, infatti, sono relative allo specifico delle modalità di assegnazione degli appalti, le considerazioni avanzate da compagini come la Uil hanno natura più generale, quasi metodologica. Si contesta il ricorso a soldi di privati quando, come segnalano le inchieste condotte dalla stessa Uil, sono nella disponibilità di Sovrintendenza e Ministero fondi sufficienti a condurre i lavori. Scrupoli del genere impedirono, anni orsono, un caldeggiato intervento di Bill Gates per ripristinare il decoro di un sito almeno altrettanto bello e rilevante: gli scavi di Ercolano. Colpito dalla rilevanza dell’area, il magnate si era offerto di farsi carico di tutti i lavori necessari: in cambio avrebbe preteso solo che all’ingresso fosse posta una targa che ne rammentasse la generosità . L’operazione fu letta come una sorta di baratto e giudicata inaccettabile: la Sovrintendenza rifiutò di concedere l’uso dell’immagine di un bene culturale rinunciando ai dollari di Microsoft. La situazione presenta molte analogie con quella odierna, tolto un elemento tutt’altro che irrilevante: mentre la Sovrintendenza campana non disponeva (e non dispone, purtroppo) neanche lontanamente dei soldi necessari all’operazione, il Sovrintendente ai beni culturali di Roma Capitale, Broccoli, può opporre ai rilievi degli accusatori la sola obiezione che non ha senso rinunciare a un regalo, a maggior ragione se svincolato da condizioni o richieste. Il merito della questione, in ogni caso, deve ancora essere determinato e ci penseranno i magistrati competenti. Resta aperto il tema della gestione dei beni culturali e della partecipazione dei privati alla loro manutenzione. I costi per la messa in sicurezza e, addirittura, per il restauro del più grande patrimonio del mondo sarebbero proibitivi anche per una nazione più florida della nostra e, visto che si parla spesso di responsabilità sociale delle imprese, è davvero misteriosa la ritrosia nei confronti di quanti si offrano di contribuire alle spese. Mettere il complesso dei nostri beni culturali in condizione di produrre ricchezza (e ricchezza di quella buona, che procura anche il progresso sociale e culturale della nazione) richiede investimenti, e concedere alcuni diritti sull’immagine a chi intervenga, rischiando capitali propri per obiettivi collettivi, sembra essere la soluzione migliore e più efficiente. È singolare riscontrare come le stesse perplessità non siano state manifestate in occasione di ben più discutibili commistioni fra beni pubblici e capitali privati, risultate poi tutt’altro che accrescitive del patrimonio comune. C’è da augurarsi che in un prossimo futuro siano queste le circostanze singolari oggetto dell’attenzione di magistrati e cittadini.
Andrea Caprioli