Recensione a "Gian Paolo Roffi. La quadratura del cerchio", di Pasquale Fameli, che ci presenta un'analisi sulle poesia visuale di Roffi, poeta bolognese
Pasquale Fameli, giovane calabrese, dottorando in Arti Visive (è del 1986) presso l’Università di Bologna, ha pubblicato un bel volume (Gian Paolo Roffi. La quadratura del cerchio, Campanotto ed., 2016) formato da tre capitoli (Una poesia del corpo/un corpo di poesia; Schizografia, una sintassi dei frammenti; La parola alle cose. Oggetti di poesia) per dissertare sulla poesia di Gian Paolo Roffi, un altro bolognese, ma di una generazione precedente (Roffi è del ’43) che ha operato nell’orbita della cosiddetta “poesia totale”. Già dal titolo Fameli ci fa comprendere in quale direzione vuole portare il lettore con questa presentazione alle poesie verbovisuali del poeta bolognese, a quella specie di rompicapo che è stata, appunto, “la quadratura del cerchio” fin dall’antichità: un problema primordiale della geometria, costellato di tentativi e relativi fallimenti nel tempo, a iosa.
L’impossibilità, in questo caso, non è tanto dovuta alla mancanza di comunicazione, che pure si fa notare, in questa realtà postmoderna dove tutto è uguale a tutto, dove tutto è il contrario di tutto e viceversa. Insomma, senza una logica o un discorso critico che sottrae le parole, i segni, le immagini dalla struttura della semantica ancora legata all’antico, che non si è ancora “adeguata” ai nuovi strumenti creativi e comunicativi. Ed è ovvio che la poesia visuale di Roffi, come tutta l’area creativa che opera nell’ambito visuale, non può che affidarsi al taglio di immagini geometriche sottratte al modulo antico, appunto, di rappresentazione, per una palingenesi di un segno che fa della ripetizione (forse proprio per rifuggire da quella semiotica ormai senza una logica) il suo credo, di allontanare la parola dal suo perenne ruolo convenzionale e stereotipato che oggi, in una epoca di caos, ha perso di valore.
«Rimandare al referente per mettere in crisi la parola, perdersi tra le cose di tutti i giorni, recuperare l’io solo nella sua sintomaticità psicofisica: sono questi i motivi dei versi scritti da Gian Paolo Roffi lungo il corso di un decennio, dal 1969 al 1979, poi ordinatamente riuniti nel 1984 sotto il titolo di Reattivi. Una poesia fredda, cruda, micro-violenta [nella migliore tradizione avanguardista e sperimentale, di ricerca, che poi e’ sempre stato il terreno su cui si mosso Roffi], in cui l’io lirico si annulla non solo nell’insignificanza di dettagli quotidiani senza valore, ma anche e soprattutto nelle abiezioni corporali, nelle vergogne, nelle ripulsioni del corpo nei confronti della sua stessa esistenza» (P. Fameli, Una poesia del corpo/un corpo di poesia, in Gian Paolo Roffi…, op. cit., p. 11).
Conoscendo Roffi da circa un ventennio, non posso che essere d’accordo con Fameli: quella di Roffi è una poesia che lacera la struttura corporea della parola per un nuovo corpo della stessa parola, dissidente, dissacrante, smitizzata, ma propositiva.
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