Da Salvatore, il vento della Rivoluzione si era fermato a Eboli, e qualche refolo aveva sfiorato solo i maschi, i capelli più lunghi, le basette, i pantaloni a zampa, un viaggio in autostop. Brevi devianze di gioventù su cui chiudere un occhio prima della vita seria.
Persisteva una comunità di convenzioni e controlli, custoditi nei comportamenti delle donne. Dove la misura del dovere, del sacrificio, della virtù era l’unico metro di giudizio e l’unico modo per essere meritevoli di orgoglio e di rispetto.
Fiorenza le sentiva muoversi per la casa alle prime luci, la suocera e le vicine, aprire le finestre, salutarsi, dirsi che era giorno di bucato, di vetri, di marmellate. E quando, ore dopo, entrava in cucina per la colazione, le pagnotte e le focacce da mandare a cuocere al forno erano pronte sul tavolo, le pentole del pranzo gorgogliavano sui fornelli, i materassi erano all’aria sul balcone, già battuti per districare la lana. E la serva strofinava pavimenti lucidi che non lo erano mai abbastanza e che la padrona faceva ripassare come diceva lei, per poi correre a impastare la farina per la pasta fresca del pranzo. La sentiva aggirarsi ancora a tarda sera, donna Vincenza, a controllare che tutto fosse a posto mentre gli altri dormivano.
Non uscivano quasi mai, le donne adulte, e solo per cose mirate, la chiesa, la merciaia, la sarta, impegni straordinari; la spesa arrivava sotto casa con gli ambulanti e le botteghe la mandavano a domicilio col garzone. Mai per passeggiare, se non ce le portavano i mariti, che preferivano i circoli e i bar.
Al pomeriggio, se non avevano da stirare e rammendare, al massimo andavano da una sorella o una vicina dove trovavano di che scuotere le teste: “vedi Teresa come spinge e sballotta le poppe, la svergognata, sai com’è, chi mette in mostra il primo piano vuole affittare il mezzanino”, “pare che la figlia del dottore si guardasse troppo con il figlio del mezzadro, per questo l’hanno messa di corsa in collegio”, “Porcelluzzo è morto, era un brav’uomo anche se mani lunghe, se ne è fatto di servette e pure di sposate, il figlio di Sabina è uguale uguale”, “Mariangela non riesce a ingravidarsi, per colpa di lui pare, eppure è un così bell’uomo”, “il nipote di Ninetta l’hanno arrestato all’università, come doveva diventare, col padre attizza popolo e la madre…”, li ascoltava Fiorenza quei discorsi, quando accompagnava la suocera.
Chiacchieravano e condivano di supposizioni, le donne, mai con le mani in mano, però, chiacchieravano e ricamavano, ed erano, le chiacchiere e il ricamo, i momenti più creativi delle loro esistenze.
Non portavano granché di colori, le donne, obbligate com’erano al nero di infiniti lutti, il padre, la madre, il suocero, la suocera, i parenti stretti, e se moriva il marito era per sempre, pur se erano giovani o ne avevano subito il dispotismo e la violenza. Un po’ di grigio anni e anni dopo, e perché l’aveva consigliato il dottore per la vista.
Piazze, strade, giardini erano degli uomini che ci indugiavano, le donne scivolavano frettolose verso casa.
Le ragazze viaggiavano solo per frequentare le superiori o l’università, o con la parrocchia per santuari e benedizioni papali, menomale che c’era la fede per vedere un po’ di mondo. Per svago, neppure a parlarne. Se dovevano fermarsi in città, o da parenti o dalle suore, le stanze a pensione erano solo per i maschi. Destinate a fare l’insegnante, la segreteria, l’impiegata, l’infermiera, sempre che il marito desse il permesso.
Quelle libere erano solite fare vasche per il corso con amiche e cugine, qualche ora prima di cena o nei festivi a fine messa. Con i maschi si sbirciavano, scambiavano qualche parola e pure qualche giro, se si conoscevano, ma ad attardarsi troppo insieme c’era il pericolo di illazioni e premure da parte delle famiglie. Meglio evitare.
«Non è come appare, non è più come negli anni Sessanta» assicurava Salvatore, «ora le coppie di nascosto si vedono, e cose le ragazze ne fanno e se ne fanno fare. Purché nessuno sappia e rimangano vergini.»
«Con l’ipocrisia non si cambia la società, né tantomeno gli obblighi delle donne.»
«È comunque un passo avanti. Prima era difficile pure baciarle. E per sentire la forma di un corpo femminile dovevi aspettare le processioni e i comizi, approfittando della ressa per spingere da dietro, con la paura che ti beccasse qualche parente.»
Le fidanzate, sul corso, ci andavano appese al braccio dei fidanzati, orgogliose dello status che il brillantino confermava e atteggiate a quasi spose.
Le sposine ricevevano le amiche in casa e fuori si accompagnavano con le parenti e con la carrozzina, nato il figlio, perché i maritini riprendevano presto a incontrarsi col gruppo dei vecchi amici.
Fiorenza usciva sempre con Salvatore, ma una volta che lui era in città per la tesi e lei aveva deciso di andare al mercato settimanale, sua suocera si era agitata perché aspettava l’idraulico e non poteva accompagnala, e aveva chiamato la ragazzina del piano di sopra.
«So dov’è , non c’è bisogno» l’aveva rassicurata lei.
«Non sta bene» le aveva risposto, «direbbero che non ti custodiamo a dovere.»
E così si era trovata con la scorta per poco meno di cento metri, lei che aveva girato in lungo e in largo e un’estate aveva attraversato l’Europa da sola, viaggiando di notte per dormire sui sedili dei treni e risparmiare sulla stanza. E in tante l’avevano fermata per chiederle come mai, dov’era il marito, perché con Robertina e non con donna Vincenza, e sembrava che in famiglia fosse successa chissà quale buriana.
S’era sentita a disagio e non aveva osato mai più.
Da “Mia Stella Caduta” ed. Golem
Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine