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Natali di parole

Il Natale, evento chiave del Cristianesimo, sembra aver subito nel tempo infinite trasformazioni. La storia dell’arte come la letteratura ne hanno costruito, insieme alla Chiesa, l’iconografia che tutti conosciamo. Ma cosa è diventata oggi la nascita povera di questo bambino che viene a portare la speranza nel mondo? Per i Cristiani è il mistero dell’incarnazione del divino nell’umano che salva l’umanità intera dal peccato, o perlomeno lo è stato per molto tempo. E in questo mito di salvezza lo hanno cantato scrittori e poeti fino al Novecento. Oggi si parla di desacralizzazione del Natale da parte degli stessi credenti e alcuni commentatori ne cercano le ragioni e le modalità. Altri, incapaci di accettare le diversità e le ormai imprescindibili società multiculturali, lo attribuiscono ad un’erosione esercitata da ciò che hanno demonizzato, trasformandolo nel nemico, l’islamismo e la società laica.

Il filosofo Massimo Cacciari, afferma in un’intervista con estrema chiarezza come ciò sia lontanissimo dalla realtà. Per lui sono gli stessi Cristiani ad aver ucciso il Natale. “ La nostra società è anestetizzata, il Natale è diventato una favoletta, una specie di raccontino edificante che spegne le inquietudini… Viviamo in un mondo che dimentica la dimensione spirituale».


Crediamo sia stata la società capitalistica dei consumi a snaturarne l’essenza trasformandolo in una fiera di Babbi Natali vestiti di rosso, alberi addobbati, regali e grandi mense imbandite. E paradossalmente ci sembra che soprattutto oggi sia la cultura laica che, pur negando il valore divino dell’evento, ne celebra il valore umano, interpretando quella nascita attraverso le speranze di giustizia, solidarietà, pace di cui il mondo ha bisogno per conservare ancora un’etica della propria umanità.

Molti sono gli esempi di scrittori e poeti che in vario modo hanno dato al Natale un valore umano che ha finito per farsi carico anche del messaggio religioso di pace e rinascita.

Già dal famoso Canto di Natale di Charles Dickens, scritto nel 1843 in piena era industriale, il tema dell’ingiustizia sociale, del divario tra ricchezza e povertà diventa il fulcro del racconto. Il ricco Ebezener Scroobe avaro e egoista subirà attraverso gli incubi di antichi Natali un profondo cambiamento. Tutto in apparenza finisce bene ma niente ci toglie l’amaro di quella Londra dove sfruttamento e miseria la fanno da padroni.

Il Natale cantato dagli scrittori mostra spesso la faccia crudele della realtà e svela l’ipocrisia che si cela dietro le apparenze di una festa dove tutto va bene.

Sono le voci di scrittori come
– H, C. Andersen
– L. Pirandello
– F. Dostoevskij 
– L. Tolstoj
– G. de Maupassant 
– O. Herry 
– M. Twain
e tanti altri che fanno stridere nella Notte Santa le campane di un dissonante racconto che accende domande più che dare risposte.

Pensiamo a  “Il Natale di Poirot di Aghata Christie, un’icona della letteratura gialla, pubblicato nel 1939, dove un pranzo natalizio tra parenti rivela l’odio che corre tra di loro fino all’omicidio. Anche qui si sfata il mito della famiglia intorno alla tavola imbandita con tutti riuniti a festeggiare. Ciò che si celebra in questo caso non è certo la nascita di un bambino divino, quanto i propri egoismi e la propria meschina pochezza.

Avere il coraggio della crudeltà quando si racconta il Natale è il modo di togliere le maschere, di sgombrare il terreno dalle illusioni per fare definitivamente i conti con ciò che siamo e le possibili speranze che questo ci consente.

Luigi Pirandello, nel suo racconto Il Sogno di Natale, ci rivela come nella sua spiritualità convivano varie suggestioni, dall’ingenua fede popolare al distacco del borghese colto. Il protagonista nella notte della vigilia ricorda il Natale della sua infanzia e si addormenta. Sogna di vagabondare  per la città insieme a Gesù, che è alla ricerca di un’anima in cui rincarnarsi e fa una proposta al sognatore: “Cerco un’anima in cui rivivere. Tu vedi ch’io sono morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi”. Ma il sognatore non ha il coraggio di abbandonare tutto; la promessa di una ricompensa infinitamente grande non lo libera dall’attaccamento al poco che è la sua vita. Al suo risveglio solo gli resta nell’anima il tormento della sua ignavia.

Uno scrittore come Dino Buzzati, attraverso la sua specifica dimensione del “fantastico”, nel suo Racconto di Natale ci parla dell’assenza di Dio.

Nella sera di Natale il prete che sta addobbando la cattedrale per la funzione solenne del vescovo scaccia un poverello dalla stessa e in questo modo scaccia anche Dio da quelle navate solenni e la cattedrale addobbata e imponente diventa fredda e oscura.

“Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c’era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all’improvviso inospitale e sinistro.” Il rifiuto del povero genera l’assenza di Dio. Per Buzzati il Natale non può che essere accoglienza del diseredato e condivisione.

Italo Calvino, con l’ironia che contraddistingue la sua scrittura, in Marcovaldo ovvero le stagioni in città, col racconto “I figli di Babbo Natale” ci presenta una forte critica del consumismo dove tutto diventa profitto, raccontandoci che la ditta Sbav, l’azienda per cui Marcovaldo lavora, sfrutta i suoi lavoratori e al tempo stesso per Natale regala loro delle strenne di poco valore. Marcovaldo, travestito da Babbo Natale per l’azienda, consegna regali porta a porta con il figlio Michelino. Quest’ultimo, scambiando il figlio di un grande industriale per un “bambino povero”, gli regala un martello, una fionda e dei fiammiferi con cui questo distrugge casa. L’industriale come conseguenza lancia sul mercato il “Regalo Distruttivo” che distrugge gli altri oggetti, “accelerando il ritmo dei consumi e vivacizzando il mercato”.


Non solo i narratori ma anche i poeti si sono ispirati al Natale, scegliendo secondo la propria sensibilità il punto di vista su un evento a nessuno indifferente.

Guido Gozzano con il suo Notte Santa, che molti di noi hanno imparato a memoria nella Scuola Elementare e il cui incipit ci risulta indimenticabile “-Consolati Maria, del tuo pellegrinare!/Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei./Presso quell’osteria potremo riposare,/ché troppo stanco sono e troppo stanca sei./ Il campanile scocca/lentamente le sei…”, ci immerge emozionalmente nel momento in cui Maria e Giuseppe non trovano alloggio e si rifugiano nella stalla dove nascerà il bambino. La compassione che provammo da bambini per quella famiglia profuga senza rifugio andava ben oltre il senso religioso del racconto. Era pietà umana che per fortuna accompagna ancora molti di noi.

 Giuseppe Ungaretti scrive a Napoli nel 1916 i suoi versi di Natale, in un contesto lacerato e doloroso, dove la ricerca di pace è l’unica cosa che conta per questo soldato appena tornato dalla trincea, ferito nell’anima dai tanti orrori visti, che ancora non sa stare e non vuole stare con gli altri. Solo la solitudine di fronte a un focolare acceso può regalargli il “caldo buono” di cui ha bisogno. “Non ho voglia/ di tuffarmi/ in un gomitolo/ di strade/Ho tanta/stanchezza/sulle spalle/Lasciatemi così/come una/cosa/posata/in un/angolo/e dimenticata/Qui/non si sente/altro/che il caldo buono/Sto/con le quattro/capriole/di fumo/del focolare.”

Umberto Saba con A Gesù Bambino, ci recita quasi una preghiera perché si salvi in lui ciò che veramente conta, la bontà per cui riconosciamo che tutte le creature sono uguali. “La notte è scesa/e brilla la cometa/che ha segnato il cammino./Sono davanti a Te, Santo bambino! Tu, re dell’universo,/ci hai insegnato/che tutte le creature sono uguali,/che le distingue solo la bontà,/tesoro immenso,/dato al povero e al ricco. Gesù, fa’ ch’io sia buono,/che in cuore non abbia che dolcezza./Fa’ che il tuo dono/s’accresca in me ogni giorno/e intorno lo diffonda,/nel Tuo nome”

Nella poesia Natale di Salvatore Quasimodo si toccano i due estremi della vita di Cristo e della nostra, la nascita e la morte. Con il poeta contempliamo il Presepe che con le sue piccole statue trasmette un profondo sentimento di pace, ma nei versi finali quella pace si allontana inesorabilmente nella violenza del mondo degli uomini dove da secoli ci si fa guerra e nessuno ascolta il pianto di un bambino che morirà in croce. “Natale. Guardo il presepe scolpito,/ dove sono i pastori appena giunti/alla povera stalla di Betlemme./…Pace nella finzione e nel silenzio/delle figure di legno…/Pace nel cuore di Cristo in eterno;/ma non v’è pace nel cuore dell’uomo./Anche con Cristo e sono venti secoli/il fratello si scaglia sul fratello./Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino/che morirà poi in croce fra due ladri?”

Non possiamo non ricordare un poeta e educatore come Gianni Rodari: i suoi testi, spesso destinati ai bambini, come questo L’abete di Natale, ci restituiscono la semplicità di un’allegria condivisa, dove anche l’abete addobbato, i doni, i Babbi Natali non sono più inutili consumismi ma oggetti intorno ai quali c’è posto per tutti e si sta insieme in pace.“Chi abita sull’abete/tra i doni e le comete?/C’ è un Babbo Natale/alto quanto un ditale./Ci sono i sette nani,/gli indiani, i marziani./Ci ha fatto il suo nido perfino Mignolino./C’è posto per tutti,/per tutti c’è un lumino/e tanta pace per chi la vuole/per chi sa che la pace/scalda anche più del sole”.

Ci piace citare in chiusura alcune riflessioni di Erri de Luca

“Natale è l’ultima festa che costringe ai conti…. Natale è atto di accusa… Dovrebbe essere festa del silenzio, di chi tende l’orecchio e scruta con speranza dentro il buio… Niente di questa festa deve lusingare i benpensanti. Meglio dimenticare le circostanze e tenersi l’occasione commerciale. Non è di buon esempio la sacra famiglia: scandalo il figlio della vergine, presto saranno in fuga, latitanti per le forze dell’ordine di allora. Lì dentro la baracca, che oggi sgombrerebbero le ruspe, lontano dalla casa e dai parenti a Nazareth, si annuncia festa per chi non ha un uovo da sbattere in due. Per chi è finito solo, per il viandante, per la svestita sul viale d’inverno, per chi è stato messo alla porta e licenziato, per chi non ha di che pagarsi il tetto, per i malcapitati è proclamata festa...Natale è lo sbaraglio di un cucciolo di redentore privo pure di una coperta. Chi è in affanno, steso in una corsia, dietro un filo spinato, chi è sparigliato, sia stanotte lieto. È di lui, del suo ingombro che si celebra l’avvento. “

  

Parole su cui riflettere, per tentare di dare al Natale un senso che vada oltre le ormai incancellabili icone natalizie del nostro tempo, in una volontà di incontro e autentica accettazione degli altri, in una coscienza risvegliata ai bisogni di tutti.

Grazia Fresu

Docente di letteratura italiana nell'università Nazionale di Cuyo a Mendoza (Argentina), scrittrice, drammaturga, poetessa, ha pubblicato libri di poesia, collaborato a diverse antologie collettive, organizzato eventi di narrazione e teatro con testi suoi e di altri. I suoi saggi letterari e di costume e le sue conferenze presentate in università, congressi, biblioteche, musei d'arte sono stati pubblicati negli atti dei congressi cui ha partecipato e in riviste specializzate sia in italia che in Argentina. Collabora con la rivista online L'Ideale.

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Grazia Fresu

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