Categorie: Culture

Quando l’arte si occupa del territorio

Una intervista all'artista Mary Cinque, all'indomani della mostra Cammina leggero perché cammini sui miei sogni, promossa dalla fondazione "L. Gaeta", Centro Studi -Carlo Levi di Eboli (Sa), a cura di Teo De Palma.

C’è un’artista molto brava che vale la pena proporla ai nostri lettori: si chiama Mary Cinque, di origini campane, classe 1979. Ha seguito i corsi di pittura e decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, prima, e quella di Brera, poi. Nel 2006 una permanenza di tre mesi come au pair tra Philadelphia e New York influenza fortemente il suo lavoro, come tutti i viaggi, più o meno lunghi, che non può fare a meno di intraprendere continuamente. Nel 2010 partecipa al workshop Capturing the elusive here, tenuto dall’artista ispano-americano Isidro Blasco presso “Area Odeon” a Monza e alla mostra Eruption presso la “White Box Gallery” di New York. Espone alla 54a Biennale d’Arte di Venezia. Nel 2012 è segnalata dalla professoressa Ada Patrizia Fiorillo al premio “Bice Bugatti – Giovanni Segantini”. È tra i finalisti del premio “Marina di Ravenna”. La sua opera, Salon d’automne, è presente nel Museo di Arte Ambientale di Giffoni Sei Casali, in provincia di Salerno.

Ho avuto la possibilità di incontrare la sua arte, che non disdegna di prendere a soggetto monumenti e siti archeologici, all’indomani della mostra Cammina leggero perché cammini sui miei sogni, promossa dalla fondazione “L. Gaeta”, Centro Studi “Carlo Levi” di Eboli (Sa), a cura di Teo De Palma, con il supporto critico di Maria Letizia Paiato che firma anche il testo di introduzione del catalogo. La mostra si è tenuta nel 2016 al Museo della Memoria – Centro Studi “Giovanni Palatucci” di Campagna (SA); oltre alle opere di Mary Cinque, furono esposte opere degli artisti Giovanni Alfano, Antonio Ambrosino, Michele Attianese, Angela Barbera, Alessio Bolognesi, Gennaro Branca, Domenico Carella, Maurizio Carriero, Alessandra Maio, Angelo Maisto, Giorgio Pignotti, Grazia Tavaglione, Luca Zarattini, Giovanni Modaffari e Francesco Paglialunga.

Prima di intervistare l’artista, occorre spendere qualche parola sulla mostra, dove l’artista campana presentò alcuni lavori dal titolo Herculaneum, qui riproposti, che è anche il titolo di un testo scritto a proposito di questi lavori. Riportiamo uno stralcio dal testo critico in catalogo di Maria Letizia Paiato: «Cammina leggero perché cammini sui miei sogni è  uno spaccato che mette a fuoco le eterogenee esperienze di questi artisti e i loro diversi linguaggi, cui s’ispirano le personali ricerche, rivelazioni di una frammentarietà e un sovrappopolamento di forme e temi che rispecchiano la cultura artistica degli ultimi trent’anni, dove tutte le correnti che hanno segnato il secolo passato, e tutti i mezzi espressivi possibili: pittura, disegno, street-art, fotografia e altro, nel cavalcare il post-moderno si mescolano, si rinnovano, si rigenerano e si reinventano in un gioco di sguardi continui. Ma la mostra è anche un sogno ispirato al domani, dove l’arte e gli artisti di oggi sono i primi a essere chiamati a una “rivoluzione poetica”, che comincia nell’immaginare possibili scopi relazionali, dove la convergenza in luoghi particolari, come in questo caso il Museo Palatucci, o in più luoghi compreso lo spazio del web, dove può e deve essere ripensata le realtà è fondamentale alla palingenesi di un nuovo pensiero.

C’è l’esigenza e la voglia di far straripare un sentimento che ripensi il mondo, il crowd-work innanzitutto, il significato di sviluppo, di crescita e progresso e per quel che concerne l’universo dell’arte, anche il suo ruolo e quello dell’artista stesso. Proprio a Campagna, dove in estate si svolge il particolarissimo evento a Chiena (la piena), ossia lo straripare del fiume Tenza che inonda la città seguendo un corso artificiale, questo senso del dirompere sembra calzare a pennello.  A Chiena, che in origine era concepito come circostanza necessaria all’igiene urbana, si offre come metafora della rigenerazione umana espressa nel contenuto e potenziale espressivo delle opere degli artisti in mostra che, come segni e sogni in piena, resistono a un’epoca che pare annebbiare l’energia creativa dei più giovani, più in generale qualsiasi vivacità intellettiva non funzionale al mercato. I tempi in cui viviamo, così lo stato dell’arte contemporanea e le nuove generazioni di artisti, sono difficilissimi da interpretare, per questo motivo ho pensato fosse importante riflettere sulle parole, chiedendo ai protagonisti di questa esposizione che significato avesse oggi per loro la parola “resistenza”. Nel momento in cui ci accoglie un luogo, dove questo vocabolo ha un significato ben preciso, e considerando come possibile che ogni epoca possa esprimere il proprio senso di resistenza, ho pensato fosse giusto capire quanto c’è di “resistente” nei segni del loro estro, scoprendo che ciò che accomuna di più queste persone – e anche me ? con esperienze diverse e una grammatica dell’arte così differente, sia il desiderare quel tessuto del cielocamminando attraverso la storia di ieri e di oggi».

Come è approdata alla scelta di soggetti archeologici?

Aver trascorso parte della mia infanzia a Pompei mi fa sentire legata in un modo speciale alle emergenze archeologiche della Campania e quando, recentemente, ho visitato gli scavi di Ercolano, in compagnia di mio padre che collabora con l’Herculaneum Conservation Project, ho sentito forte l’esigenza di dedicarvi un ciclo. Il risultato sono questi acrilici su tela di lino grezzo dove la tela non dipinta percorre il profilo degli edifici antichi mentre i palazzi moderni sono raccontati dalle linee e dal colore in una volontà di indagare il rapporto tra antico e moderno e se e come i legami sopravvivano lungo i secoli. 

Come nascono questi lavori, diciamo così, archeologici?

L’accordo che prevedeva l’abbattimento di ulteriori edifici moderni per consentire il proseguire delle campagne di scavo, ha rappresentato per me un motivo in più per realizzare nuovi lavori, così da documentare un paesaggio che oggi è fortemente contemporaneo ma che già tra pochi mesi, diventerà passato e più tardi ancora, potrebbe essere considerato archeologia esso stesso.

Dunque, l’indagine è sul quotidiano odierno che non ci appartiene o non appartiene all’artista, anzi lo discrimina.

Il discrimine tra ciò che è quotidiano e ciò che è documento storico, e il confine più o meno labile tra ciò che è considerato fondamentale e ciò che è ritenuto un intralcio rappresentano per me un interessante campo di indagine. La mia ricerca artistica ruota da sempre attorno all’umano e alla sua vita nella città, fatta di edifici, strade e manufatti e sulle relazioni tra essi. Napoli e il suo hinterland sono un terreno fertilissimo per chi voglia farsi stimolare a una riflessione antropologica, storica o anche meramente estetica. Nella nostra regione si vive continuamente immersi in un passaggio che è contemporaneamente contemporaneo e millenario e ciò mi ha sempre portato a riflettere su come ciò venga vissuto.

Secondo lei la Campania ha la consapevolezza delle bellezze antiche e moderne che possiede?

A un livello teorico e normativo sembriamo dare molta importanza, aiutati in questo dal governo nazionale, alle testimonianze storiche; nella pratica quotidiana i campani paiono spesso trattare allo stesso modo le inestimabili vestigia di un passato che appartiene all’intera umanità e le moderne infrastrutture. Questo atteggiamento potrebbe tanto essere giudicato come un male, poiché sintomo di una profonda mancanza di rispetto e di un diffusa ignoranza; tanto come un relativo “bene”, perché sembrerebbe indicare una innata capacità dei campani di vivere nel momento, senza farsi sopraffare dal passato e senza preoccuparsi del futuro. Tale atteggiamento, che a prima vista potrebbe apparire spaventevole, rappresenta forse però, l’unico modo per sopravvivere in una società che, a scala mondiale, dimostra di non curarsi di ciò che accadrà domani.

Alla base di questi suoi lavori, a quanto comprendiamo, c’è l’idea di recuperare le periferie, di darle una adeguata dignità umana.

Porzioni sempre maggiori di umanità si concentrano nelle città, le quali vedono espandersi le loro periferie in maniera esponenziale con un conseguente calo della qualità della vita. Mentre la necessità di risorse energetiche aumenta ben pochi governi sembrano indirizzarsi a un utilizzo delle fonti rinnovabili. Il vivere alla giornata del popolo campano appare quasi come il modo di vivere ideale delle società del 2000, vivere, consumare suolo e risorse senza pensare alle conseguenze, dimentichi del futuro, del passato e, in ultima istanza, di se stessi.

Quali sono i soggetti archeologici che ha dipinto?

Ho dipinto sulla tela solo la moderna città di Ercolano poiché vorrei invitare lo spettatore a guardare oltre ciò che di solito gli viene suggerito di guardare. È vero che l’antica Ercolano rappresenta una testimonianza meravigliosa di un glorioso passato, ma è anche vero che sono stati essere umani a costruire tale bellezza, e sono esseri umani quelli che hanno costruito le case tutte intorno e che oggi le abitano. Deve esistere una continuità tra gli “scavi” di Ercolano e Resina e trovo molto interessante la loro “convivenza”, soprattutto in uno Stato come l’Italia in cui tanto si fa per salvaguardare il patrimonio artistico storico dimenticando che l’arte è anche contemporanea.

Sono stati ulteriormente esposti questi lavori?

No. Solo al Museo Palatucci.

Ci spieghi un po’ la tecnica, le misure, i supporti di queste opere. 

Per raccontare la mia volontà di interrogarmi e far interrogare lo spettatore sul dialogo tra antico e moderno ho scelto di utilizzare tele di lino o di cotone grezzo, cioè senza preparazione, in modo da avere una base che non fosse del consueto colore bianco, ma di un colore più sporco, ma anche più vero e che mi ricorda le pietre delle antiche costruzioni. Le tele che ho scelto vanno da piccoli formati come 20 x 20 cm x 4 di spessore a formati medi come 40 x 40 x 4 di spessore, ma uso anche tele di formato rettangolare, lasciando sempre una parte della superficie del quadro non dipinta. In questo modo la tela grezza, sia essa di lino o di cotone, rappresenta già di per sé una campitura di un tono che va dal beige al grigio caldo, ideale per rappresentare il profilo degli antichi edifici che incorniciano la città contemporanea. Tale scelta si inserisce nel solco della mia ricerca artistica, sempre tesa a ribadire come la definizione di pieno e vuoto, e di primo piano e sfondo siano solo definizioni convenzionali e, quindi, potenzialmente continuamente ribaltabili.

Giorgio Moio

Poeta, nasce a Quarto (NA) nel 1959. Già redattore di «Altri Termini» e «Oltranza» (di quest'ultima è anche tra i fondatori), per le Edizioni Riccardi, già direttore editoriale, nel '98, anno in cui inizia a partecipare a mostre collettive di poesia visuale (una sessantina fino ad oggi) fonda e dirige la rivista «Risvolti». Dal 2017 dirige la rivista «Frequenze Poetiche» e dal 2021 cura la collana di poesia verbovisuale "Contrappunti", presso l'editore Bertoni. Ha organizzato eventi, partecipato a letture di poesia e ad una sessantina di mostre collettive di poesia visuale. Ha pubblicato una ventina di volumi di poesia, prosa e saggistica, di cui l'ultimo è Contrappunti variabili (Bertoni Editore, 2020 - poesia).

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