Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
(Fabrizio De André, La guerra di Piero)
Ma l’anima di quali foglie / si vestirà per sfuggire /
alla muta non vista osservazione / dell’occhio che
scopre in ognuno / baleni di rimorso e nostalgia?
(Vittorio Sereni, da Frammenti di una sconfitta, in Diario d’Algeria)
Avrebbero sentito la puzza?
Questo era il suo pensiero dominante in quel momento, mentre avvertiva dolorosamente, tra le natiche e l’inguine, le feci calde che quasi lo incendiavano.
In verità era poco probabile, vista la situazione complessiva, che qualcuno di quei soldati accucciati lungo il muro fosse in grado di avvertire un qualsiasi odore, in quel miscuglio di sudori, residui di cibo, fumo di sigarette, fumo e odore di zolfo delle granate cadute lì vicino, e soprattutto in quella immobilità d’ogni specie di sentire che imperava in tutti o almeno nella maggior parte di essi, mentre aspettavano da un momento all’altro il grido del capitano, “Avanti, Savoia!”, con il nome del suo battaglione, ch’era quello della casa regnante, pronunciato quasi fosse quello di Dio.
Gli altri battaglioni avevano smesso quel grido, sentito come superato, per il nuovo e forse più efficace “A noi!”, in risposta all’incitamento “A chi la vittoria?” (di lì a pochi anni questo sarebbe diventato il sinistro grido dei fascisti, ma loro non potevano saperlo). Ma il Primo Battaglione “Savoia” portava quel nome, e, nelle compagnie che lo formavano, quel grido attendevano di udire per gettarsi fuori i soldati, fermi per ora in una provvisoria eternità.
La trincea respirava e inghiottiva tutto, odori rumori sapori, in una nuvola piatta che quasi eguagliava il colore dei mantelli grigioverdi a quello dei grigi muri, e le spalle e le natiche avevano la stessa durezza dei muri e del terreno su cui stavano schiacciate da ore.
E dunque Ernesto non avrebbe dovuto temere che qualcuno si accorgesse di quella vergogna, frutto della sua paura. Ma, come succede nelle situazioni d’emergenza, quando, nel crollo di una casa per un terremoto o nel momento in cui un parente stretto e caro, nel suo letto di agonia, smette il rantolo passando dalla vita alla morte, proprio allora ci si applica a cercare una certa penna o una certa fotografia o un certo qualsivoglia banale oggetto come se fosse urgente trovarlo, così per Ernesto la preoccupazione più grande in quel momento non era l’assalto alla baionetta a cui certamente sarebbe stato chiamato fra poco, ma che gli altri potessero sentire l’odore della sua merda.
E, come quando da bambino, dopo una marachella, aspettava guardando il terreno la mano del padre che sarebbe calata di lì a poco sul suo collo, e nell’attesa di quei due o tre secondi lunghissimi arrivava a sperare che facesse presto, così ora giunse a sperare che arrivasse presto il grido “Savoia!”.
Ma l’“Avanti, Savoia” non arrivava, ed Ernesto avvertiva sempre più dolorosa la sensazione della propria puzza.
Arrivò invece a un certo punto l’ordine di salire sul ripiano più alto della trincea per mettersi in posizione con i fucili puntati: evidentemente la sortita l’avevano già fatta i nemici e stavano per arrivare.
Tutti sopra, dunque. E messosi in posizione come gli altri, anche lui puntò, mirando prima al vuoto, poi, guardando meglio, alla nuvolaglia di soldati che arrivava, alle grida che emettevano e che ubriacavano lui come certamente ubriacavano chi le emetteva. Era in quella confusione che doveva sparare. E si ricordò che era la prima volta, e che, come gli avevano ripetutamente insegnato durante le esercitazioni, poteva essere l’ultima se non lo faceva in tempo. Tirò il grilletto più volte, come gli altri, fra gli altri, ma aveva la percezione di essere il solo a farlo, una percezione che resisteva anche in quei lunghi attimi, come il senso nauseabondo della sua merda.
Come fu?
Uscivano tutti dalla trincea, e sentì un calcio dietro che lo spingeva ad uscire anche lui. Correva, sparava, finché il grido forsennato del capitano li spronò tutti all’inseguimento. Corse ancora, ancora sparò, e stavolta vide chiaramente a pochi metri da sé un corpo che si accasciava. Doveva correre tuttavia, il protocollo prevedeva di scavalcare il nemico ucciso e di continuare a sparare correndo. Ma il corpo accasciato lo paralizzò, prima nella mente, poi nelle gambe, e si accasciò su di esso. Mentre gli altri continuavano, e nessuno si fermava perché lo credettero uno dei tanti morti nella corsa, si trovò faccia a faccia con la bocca digrignata e gli occhi spalancati e fissi del nemico da lui – da lui! – ucciso.
Non fu premeditazione a suggerirgli di restare immobile in quel viso. Fu lo schianto. Ma fu la sua salvezza. Quando intorno a lui e sopra di lui furono passati tutti i suoi compagni, si ritrovò pesto, sperduto e solo di fronte a quel morto, come se fosse l’unico morto, come se non ce ne fossero a decine intorno a lui. Pianse, non sapeva se per il nemico ucciso o per se stesso. Si alzò piano, senza neppure accorgersi di lasciare a terra il fucile, e quando vide il massacro intorno a sé, tra le grida e gli spari che avvertiva sempre più opachi e lontani, cominciò a camminare, non certo nella direzione dell’inseguimento e neppure indietro verso la trincea, ma in direzione laterale, quasi volesse allontanarsi dal campo di battaglia, pur sapendo bene che tutto era campo di battaglia, che le trincee erano state costruite senza soluzione di continuità.
Camminò per ore, e dovette percorrere parecchi chilometri se poté incontrare a un certo punto la trincea che, dopo un’ansa intorno a una piccola montagna, ripiegava di nuovo nella parte pianeggiante. Quello che non si aspettava di trovare era il deserto interrotto solo da cadaveri qua e là. Gli fu facile intuire che c’era stata anche lì una battaglia, anche se non poteva sapere se i nemici fossero entrati nel territorio o se la trincea fosse stata abbandonata dopo una di quelle parziali conquiste di pochi chilometri che costavano vittime più che se fossero stati conquistati interi paesi.
Attraversata la trincea abbandonata, continuò a camminare, fino a quando, girandosi, si accorse che non solo il campo di battaglia ma anche la trincea stessa era ormai fuori dalla sua vista.
Aveva attraversato gran tratto di una pianura interrotta solo una volta da una piccola folla di alberi che si erano diradati ben presto, per cui davanti a lui c’era ora a vista d’occhio solo erba, resa giallastra dall’autunno maturo, e forse, non ne era sicuro, in lontananza una macchia bianca che il sole del tardo pomeriggio accecandolo non gli lasciava distinguere bene nei contorni, e che sperò fosse un casolare.
Lo era, se ne accorse dopo un altro quarto d’ora di cammino. Quando vi giunse, ormai al tramonto, vi entrò. Era deserto, abbandonato forse da tempo. Non vi era nulla, ma gli bastò il terreno su cui si stese e si addormentò in un sonno di piombo.
La luce dell’alba lo svegliò. Si sentì sazio di sonno. Quanto aveva dormito? Ben più di una decina d’ore, come non gli era mai accaduto, neppure da bambino, quando non andava ancora a scuola e si svegliava dopo che il padre e i fratelli grandi erano già usciti, e la madre lo accoglieva con il suo largo sorriso e gli preparava la colazione; riusciva ancora ad avvertire il sapore del pane intriso di latte fresco col retrogusto dell’orzo, il caffè permesso ai bambini.
Furono forse i ricordi infantili a iniettargli proprio in mezzo al petto una densa nube di tenerezza? O fu piuttosto lo scroscio quasi improvviso della pioggia, che dopo un minuto già cadeva potente e diffusa a un metro da lui, fuori dell’uscio lasciato aperto del casolare?
Uscì gettando quasi con furia gli abiti intorno a sé, con l’avidità che simulano nei film gli attori in scene erotiche, quando stanno per gettarsi sul letto con la donna amata. Il desiderio di lavarsi a quella pioggia gli arrivava infatti come la promessa di un piacere dei sensi, come un pasto pantagruelico apparso improvvisamente, splendido miraggio, davanti a chi non mangia da tre giorni. E lì, nudo e felice, con le braccia aperte ad ali, si lasciò pulire dall’acqua che con la sua violenza sembrava volesse purificarlo da ogni macchia, da ogni merda, da ogni peccato.
Rimase così, in piedi, solo nella solitudine immensa di quella campagna, per un tempo che gli sembrò tanto lungo da avere le caratteristiche dell’eternità. Un attimo, anzi l’attimo.
Quando la pioggia decrescendo gradualmente si ridusse a rade gocce, mentre il sole tardava a mostrarsi tra la persistente nuvolaglia, cominciò ad avvertire un po’ di freddo pizzicargli la pelle.
Ma si sentiva pulito…
O forse no. Gli tornava sottile e insistente nel naso quel cattivo odore di merda. E gli si parò davanti alla mente, accompagnato dalla sensazione di vergogna che aveva così dolorosamente avvertito il giorno prima nella trincea, il volto deformato e accusatore, con gli occhi spenti e spalancati, del soldato nemico su cui si era accasciato: la sua vittima e il suo salvatore.
Nell’aria ormai limpida poté scorgere in lontananza le montagne che lo separavano dal mondo abitato. Si rimise addosso gli abiti, zuppi di pioggia anch’essi, e s’incamminò.
Ogni riferimento, all’interno del racconto, a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale
Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine