Mi vedi?
Qui godo tutta la meraviglia luccicante e abbacinante del mare d’agosto.
Mare di vita e di morte, odissea e preghiera.
Per me, ora, emozione e sale.
Mi vedi?
Ti aiuto, so che ne hai bisogno: quella al centro dello scoglio, a un miglio da Panarea, sono io.
Sei stupito? Perché? Lo sai quanto ho cercato questo punto fermo e preciso nel mare, questo scoglio tondo e aguzzo, nero come l’inchiostro. L’ho trovato, nuovamente.
Da qui osservo se l’acqua è profonda quel tanto che basta per un tuffo o se nasconde pericoli sotto lo spumeggiar della risacca.
Mi tuffo. Affondo tra le mille bollicine d’aria che mi porto dentro e che in pochi istanti mi lasciano, eccitate dalla festa promessa d’azzurro e di bianco del cielo. Voglio andare giù, nel blu che cambia colore, lasciare l’argento spumoso e dirigermi all’indaco e al viola fino a sfiorare il bruno del vuoto che inghiotte la luce.
Non oso sfidare l’orbita di Polifemo.
Per fortuna prevale la naturale spinta verso l’alto, come anche l’istinto di riemergere. Per qualche secondo mi sembra di essere ferma, sospesa sul vuoto come il batacchio di una campana altissima dimentica del tempo. Da quel punto, allora, le bracciate si fanno ampie, possenti come battiti d’ala di albatros. La luce verde acqua diviene sempre più chiara e in trasparenza vedo il cielo.
Esplodo con tutta la spinta di Nettuno dalle onde e mi aggrappo felice, immensamente grata, allo scoglio, non mi accorgo che mi taglia i palmi. Riprendo fiato, rido ad occhi socchiusi, osservo, tra le gocce e le lacrime di salsedine, il mio solido amante ricoperto da piccole alghe, conchiglie e patelle nei buchi della roccia lavica sputata dal vulcano, resa bella e lucente, come pelle d’Africa, dai cristalli di sale ed ematite lavati dal mare.
Eravamo qui in un altro tempo, amore mio, quando insieme sulla barca scrivevamo cartoline: Un ricordo da Panarea, un caro abbraccio da noi, dal paradiso.
Mi vedi ora? Mi cerchi mentre ti saluto da questo nembo di roccia sul quale senza dolore son salita per cavalcarlo o per fare come i gabbiani, stare, guardare, attendere una fame.
Proverò a chiamarti allora. Novella sirena o uccello di scoglio proverò a oltrepassare lo sciabordio bianco delle onde, l’alito caldo e costante del vento, il tonfo della risacca che anima cupi gorgoglii negli anfratti sottomarini abitati da molluschi. Chiamare, gridare o urlare?
E se provassi a cantare? Ti piaceva la mia voce quando intonavo le melodie della nostra terra o le ninna nanne inventate per il nostro miracolo compiuto. Ti piaceva la mia voce, argentina quando si rideva insieme o si ragionava sulla costruzione dei sogni, o modulata e armoniosa quando voleva persuadere e incantare. La rabbia invece non è voce, è spostamento d’aria generato dal salto della tigre, è cupo ruggito. Se la giungla giustifica quel salto e non sottrae fierezza né selvatica bellezza all’animale, nulla appare più patetico del balzo da circo, comandato nel recinto dallo schiocco di una frusta. Come tigri nell’angusto spazio domestico ci siamo fronteggiati, soffiati, ghermiti e umiliati: un vuoto primato per chi saltava più in alto. Da tempo le nostre voci non viaggiavano più assieme. Te la ricordi la mia? La riconosceresti tra i fischi dei delfini e il garrito dei gabbiani?
Cola il liquido denso e caldo dai palmi feriti, li lecco prima che gocce rosse si disperdano in mare. Non voglio che arrivino ai ricci o confondano le murene. Sono un’ospite educata. I tagli sono sottili, neanche il bisturi più affilato avrebbe potuto così invisibilmente tagliare la linea della vita. Mi appaiono davanti le tue belle mani, eleganti e curate a differenza delle mie perennemente portate alla bocca per un vizio imitato e mai più vinto. Era dolce il loro intreccio, quando si sciolse non ce ne accorgemmo. Mani indaffarate, passi frettolosi, due posti sempre più distanti sul divano, due impronte distinte nel letto. Inizia spesso così la fine, senza saperlo, senza volerlo.
Mi arriva il profumo di Panarea, essenze di fiori e piante antiche e coraggiose che hanno sfidato il tempo e i vulcani, la salsedine e lo scirocco. Finocchietto selvatico, erica e limonio, gelsomino e ginestra odorosa mi avvolgono come in una danza rituale e mi invitano al cerimoniale della vita.
Mi manchi da tanto tempo.
Ho chiesto al marinaio di lasciarmi qui fino al primo mutar del vento, potrebbe avvenire presto e siamo troppo distanti. Ho deciso di tuffarmi e di raggiungere a nuoto l’isola. Cosa potrebbe accadermi? Se violacciocche e fiordalisi han trovato il modo di fiorire a Panarea, troverò il coraggio di nuotare in apnea, a pelo d’acqua di modo che tu possa avere il dubbio che sia io o persuaderti che una manta d’argento balugini tra le onde giocando con le Nereidi e non cercarmi più, qui, ma in un altrove di consolidata
assenza.
Vuoi venire con me? Io ero il puntino sullo scoglio a un miglio dal futuro, ora sono quello spruzzo differente dal soffio del delfino, tra il blu e il bianco.
Ci stupivamo quando al contempo avevamo gli stessi pensieri. E allora ti penserò intensamente fino a che avrò ossigeno per entrambi. Poi ti lascerò andare, nuoterò e basta, lo farò per me perché ho bisogno di sapere che approderò sull’isola, e troverò ancora le impronte delle mie mani impresse per gioco e per promessa nella calce bianca. Vi avrà radicato il cappero e saranno sbocciati i suoi splendidi fiori tra le mie dita.
La storia di oggi è tratta dalla raccolta di racconti: Racconti Viola.