Uno dei grandi capolavori della letteratura meridionalista è certamente I Viceré di Federico De Roberto. Lo scrittore, nato a Napoli nel 1861 da Federico, un ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie (che morirà ancora giovane travolto da un treno) e da Marianna Asmundo, nobildonna nata a Trapani ma di origini catanesi (che nella sua precoce vedovanza legò a sé il figlio in un rapporto geloso e possessivo), si spense a Catania per un attacco di flebite il 26 luglio del 1927.
A chi lo leggesse oggi non potrebbe sfuggire la sorprendente modernità del suo romanzo. La nostra cultura letteraria ma anche la nostra coscienza politica ne ricaverebbero illuminanti prospettive per interpretare questo disastrato presente. De Roberto è uno scrittore solo recentemente diventato attuale. La scoperta della sua affinità con le avanguardie del primo Novecento, per cui lo si considera più vicino a Pirandello che non a Verga, nonostante le sue dichiarazioni di poetica si riconoscessero nel Verismo, è oggetto del dibattito contemporaneo intorno alla sua opera che ha caratteristiche di assoluta novità rispetto al passato.
Il romanzo, scritto dal 1891 al 1893 e pubblicato a Milano nel 1894, racconta le vicende dell’ aristocratica famiglia catanese degli Uzeda di Francalanza, soprannominati I Viceré, in memoria degli antenati che ricoprirono quella carica sotto la dominazione spagnola, negli ultimi trent’anni dell’Ottocento durante la lotta per l’Unità politica della penisola.
Per Verga il progresso e la “libertà” si arrestavano davanti alla povertà, per De Roberto invece è in un’aristocrazia corrotta che naufragano tutte le speranze del sogno risorgimentale.
La saga familiare comincia con la morte della principessa Teresa e con la lettura del suo testamento. Questo fatto scatena le bassezze dei protagonisti. I personaggi di De Roberto sono infatti avidi, meschini, assetati di potere e carichi di odio gli uni verso gli altri. Consalvo, ultimo discendente della nobile stirpe, ricorderà a tutti che il loro destino, il loro ruolo storico è quello di comandare, sia con il denaro e la violenza che con l’inganno e il tradimento, poiché il denaro e il potere si innalzano per lui a valore assoluto . Tutto va sacrificato all’utilitarismo, persino la dignità di uomini e donne e con ogni mezzo va evitato il rischio di decadenza della famiglia, adattando le proprie ambizioni alle mutate circostanze storiche. I Viceré, nel raccontare la storia della nobile famiglia siciliana Uzeda, a volte anche con toni grotteschi e ironici, finisce con l’essere la devastante biografia di una nazione, diventa lo specchio impietoso su cui noi italiani, inchodati a un’identità che ha perduto da tempo la sua valenza etica, siamo costretti a rispecchiarci e a riconoscerci.
Come ebbe a dire Leonardo Sciascia nella riedizione Einaudi del 1977, “I Viceré” sono “dopo i Promessi Sposi, il più grande romanzo che conti la letteratura italiana”, eppure alla sua uscita l’opera non ebbe successo, sia per il clima culturale nel quale il realismo cominciava a decadere e si affermavano le esperienze spiritualistiche e formalistiche di D’Annunzio, Fogazzaro e Pascoli, sia per la stroncatura critica dovuta a Benedetto Croce, allora un’autorità indiscussa e potente della critica letteraria e filosofica in Italia. Il romanzo fu a lungo poco conosciuto e poco amato, per il forte ostracismo che ricevette alla sua uscita. Del resto era difficile che la crudezza di questo testo potesse incontrare il gusto dei filosofi idealisti. De Roberto presenta la sua epoca come un’epoca di crisi, l’idealismo e il romanticismo si stavano rivelando solo vuote parole e la storia si stava allineando su una sequenza di fatti e comportamenti dove trionfava l’opportunismo, il trasformismo, la sete di potere, il disinteresse totale dei governanti per il benessere generale; egli stigmatizza i vizi della politica e della società italiana che, allontanatisi definitivamente dagli ideali risorgimentali di progresso e libertà, stanno disegnando una mappa del paese all’insegna della più bieca corruzione, installatasi in tutte le pieghe della società fino a caratterizzarne l’essenza. Come si può constatare i mali del nostro paese hanno radici nelle stesse origini dello Stato Unitario nato dal Risorgimento.
Sciascia riconosceva inoltre a questo libro l’assoluta coerenza tra stile e racconto, ossia la capacità, con un linguaggio freddo, razionale e proprio per questo tagliente come una lama e efficace, di narrare senza perbenismi e pietà le piaghe vive del nostro paese. Ne amava la sincerità dolorosa e spietata con cui De Roberto mette in scena il suo teatro di maschere, mostrando cosa si nasconde dietro i luccicanti orpelli del potere, i cui rappresentanti corrotti e senza ideali sono gli sciacalli e le iene di un sistema perverso.
L’esordio letterario di De Roberto, accompagnato dalla sua attività di critico e giornalista, avvenne con la pubblicazione di un saggio su Giosuè Carducci e Mario Rapisardi, edito dall’Editore Giannotta di Catania. Attraverso questi entrò in contatto con Verga e Capuana coi quali strinse una profonda amicizia. Quando nel 1888 si trasferì a Milano, Verga lo introdusse negli ambienti della Scapigliatura e qui conobbe Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa e Giovanni Camerana.
Fu proprio nel periodo milanese che De Roberto pubblicò numerose novelle e romanzi, compreso il suo capolavoro, nel quale applica tutte le tecniche della letteratura verista, radicalizzandole fino ad una impersonalità della narrazione e a un racconto dei fatti di tale rigorosa esattezza da lasciare indietro molte delle migliori pagine veriste.
Se è vero infatti che l’impersonalità era una caratteristica del Naturalismo e del Verismo, la impersonalità in De Roberto non riguarda tanto la voce narrante che si mimetizza nella vicenda quanto l’uso di una narrazione che si fonda soprattutto sul dialogo e sulle crude folgoranti descrizioni, secondo una tecnica teatrale che mette in scena i fatti come in un assoluto presente. De Roberto afferma infatti che “L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive per il teatro”. La scrittura di De Roberto è inoltre dotata di una grande eleganza e ricchezza linguistica che si sposa in modo originale con il rigore della sua impostazione ideologica.
Oggi il romanzo è considerato non solo uno dei massimi capolavori del Verismo Italiano ma anche un profetico specchio dell’Italia contemporanea.
L’attualità di questo romanzo è sconcertante, dopo un secolo e mezzo la politica resta un esercizio che mira alla costruzione di un privilegio personale. Ieri come oggi imperano la corruzione e l’ipocrisia.. In questo senso De Roberto è stato un analista del fenomeno risorgimentale non solo attento a tutti i suoi risvolti, ma anche profetico, come infatti sembrerebbe testimoniare l’attuale situazione italiana, differente nella forma ma non nella sostanza.
Come ci dice Antonio Di Grado, ordinario di letteratura italiana e studioso di De Roberto, “I Viceré” sono “l’impietosa autobiografia di una nazione” e “rappresentano un feroce affresco di quello che siamo noi italiani, un quadro che fa venire in mente le tinte forti di Goya. E non è un caso che la famiglia al centro delle trame sia infatti di origine spagnola”.
A noi, attuali lettori, si chiede di leggerlo, non solo come un capolavoro letterario, non solo come un romanzo storico sulle vicende risorgimentali, ma anche come un ritratto dell’Italia contemporanea, della sua involuzione culturale e intellettuale, della sua gravissima crisi ideologica, politica, morale. Al di là della superficiale somiglianza tra due epoche corrotte, ciò che più colpisce è il messaggio del libro: per De Roberto il trasformismo non si limita ad essere uno schema ideologico, una forma mentis di ambito politico, ma diventa un vero e proprio mezzo, universalmente introiettato, di relazione sociale. E di conseguenza la corruzione politica genera la corruzione della psicologia individuale e della coscienza intellettuale nell’intera società.
Il regista Roberto Faenza nel 2007 ha tratto da “I Viceré” un film di spessore, che ci mostra chiaramente come corruzione e trasformismo nati in quegli anni siano divenuti un vizio endemico della nostra società.