Se verrà la guerra, Marcondiro-ndero,
se verrà la guerra […] chi ci salverà?
Ci salverà il soldato che non la vorrà,
ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà
(Fabrizio De André)
La morte, si sa, è inevitabile. Quello che possiamo scegliere è la modalità di ricezione o di accettazione di essa.
I più scelgono la vita senza pensarci troppo, ed è il modo migliore.
Ma c’è chi non ha questa possibilità, perché viene messo in condizione di rischiare la morte ogni momento.
Ecco, quello era il caso di zi’ Alfonzo, come della maggior parte di quelli che andavano al fronte tra il 1915 e il 1918, in quella che fu chiamata dal papa di allora, Benedetto XV, l’inutile strage.
Zi’ Alfonzo era il fratello di mia madre. Portava il nome dell’uomo che aveva cresciuto mio nonno Ferdinando, del cui vero padre non si era saputo più niente dopo che era partito per raggiungere il suo re Francesco II in esilio. Il nonno putativo aveva lasciato in eredità un bar, dove quest’unico nipote maschio avrebbe dovuto trovare il suo futuro, se non glielo avesse negato la guerra.
Gli scarni racconti di mia madre non sarebbero bastati a ricordare questo mio zio, ma qualche lettura di storia e un po’ di sentimentale immaginazione mi hanno permesso di ricostruire il ricostruibile.
Zi’ Alfonzo dunque andò al fronte. Ma dovette rendersi conto ben presto che, per lui e per quelli come lui, la scelta era tra il morire ammazzato dal nemico oppure dal plotone di esecuzione. A meno di non sottrarsi alla carneficina rischiando di levarsela da sé, la vita.
Lui scelse quest’ultima via. Le probabilità di morire erano le stesse: se fosse andato all’assalto di baionetta, non essendo egli molto portato per fare del male, sarebbe stato servito da una o più pallottole di quei ragazzi come lui che doveva chiamare nemici, come se gli avessero fatto chissà quale torto, mentre non li conosceva neppure.
Se si fosse rifiutato di combattere, sarebbe un disertore e quindi passato per le armi, come effettivamente accadde a migliaia di giovani in tutti i gloriosi eserciti europei che in quel tempo si massacravano senza neppure sapere bene perché.
E allora non restava che prendersi gioco di tutti, con il ghigno feroce di chi dice: “Non mi avrete, maledetti!”
Fu un commilitone che la pensava come lui a dargli il suggerimento decisivo: per essere mandati a casa bisognava ammalarsi, ma seriamente. Una malattia passeggera poteva essere curata lì, poi sarebbe riportato al fronte. Anche ferirsi ad una mano o ad un piede ormai non serviva più: molti erano curati e rimandati al fronte, o addirittura erano andati davanti al plotone di esecuzione perché indizi inequivocabili avevano rivelato ai medici che le ferite se le erano procurate da soli.
Ci voleva una malattia seria, non guaribile, che lo rendesse definitivamente inabile al servizio. Alcuni, una volta riusciti ad andare in ospedale per qualche procurato infortunio, cercavano la vicinanza dei tubercolotici, bevendo dai lori bicchieri o usando un loro fazzoletto. Ora si sa che la tisi a quei tempi non era curabile, se non per tentativi, per lo più vani, di respirare aria pura di campagna, per chi poteva permetterselo.
Perché solo di fronte a una malattia mortale ti mandavano a casa.
Il modo scelto da Alfonso fu però un altro.
Innanzitutto, non mangiare. E per tre mesi lui non mangiò quasi nulla, fino a ridursi una larva. Poi bere aceto. Si sarebbe ammalato di sicuro: il digiuno lo avrebbe indebolito e l’aceto avrebbe bucato lo stomaco. Una volta a casa, le probabilità che lo stomaco si rimarginasse c’erano, certo più di quante erano le probabilità di guarire da una tubercolosi o di rimanere illeso in uno scontro a fuoco in cui non fosse riuscito neppure a sparare. In questo modo sarebbe portato in ospedale, e poi rimandato a casa.
E poi poteva fumare, gli davano le sigarette! Fumare gli attutiva la fame.
Al principio non gli costò nemmeno tanto buttare via il rancio senza farsi vedere o darlo a qualcuno più affamato. Anche l’aceto non era male, al principio. Aveva un buon sapore, un sapore peraltro che lui conosceva bene, nelle insalate che gli faceva la madre. Poi fu lo sforzo di volontà ad aiutarlo ad ingurgitarne ancora e a continuare ad astenersi dal cibo. Questo gli avrebbe assicurato un tale malessere da poter marcare visita.
Quando tornò a casa era quasi irriconoscibile. Una foto di famiglia, risalente sicuramente al periodo prima della guerra, lo mostra ancora imberbe ma già magro, dall’aspetto fragile: immaginiamo cosa doveva essere dopo quel trattamento che si era autoinflitto.
Ma ad ucciderlo non fu solo l’aceto. Visitato dal medico di famiglia, risultò che aveva contratto proprio la terribile tbc.
Non sappiamo quanto durò il decorso della malattia, perché mia madre non entrava mai in questi particolari. Anzi, per la verità, lei non raccontava, accennava solamente, quasi come se si trattasse di particolari poco influenti che non valeva la pena rinvangare del tutto. E se vi accennava era solo perché di tanto in tanto quel fratello perduto andava pur ricordato; ma vi accennava con un riserbo che tradiva un’inconfessabile vergogna, quella vergogna che hanno inculcato per millenni a chi rifiuta la violenza, una vergogna di cui facciamo ancora fatica a liberarci, nonostante le rivisitazioni storiche dei fenomeni della diserzione e dell’autolesionismo, nonostante i numerosi scritti sulla nonviolenza e anche le canzoni popolari come quelle di De André.
Non sappiamo dunque quanto tempo durò la malattia. Possiamo solo immaginare gli ultimi tempi, quando Alfonso cominciava a sentire la sua fine nella debolezza, nella sofferenza, negli attacchi di emottisi. Credo che negli ultimi giorni, come è successo e succede a tutti quelli che vi arrivano dopo tormenti fisici che all’epoca non era neppure sempre possibile attutire, si lasciasse andare con serenità.
Aveva passato il tempo della paura e quello del dolore. Ora era il tempo dell’abbandono. E lui si abbandonò.
Per l’immagine ringraziamo il fotografo, Flavio Ferraro, che ha gentilmente concesso l’uso della sua fotografia